Il terrore che sarebbe durato per ventotto anni, ma forse di più, ebbe inizio, per quel che mi è dato sapere e narrare, con una barchetta di carta di giornale che scendeva lungo un marciapiede in un rivolo gonfio di pioggia.
È uno degli incipit più giustamente celebri della narrativa contemporanea, e soprattutto uno dei più efficaci, quello con cui si apre il magnum opus di Stephen King. C'è un concetto astratto, il terrore, in procinto di rivelarsi l'elemento chiave dell'intero romanzo. C'è un'immagine estremamente concreta, quella barchetta di carta che fugge lungo una via della cittadina di Derry in un tempestoso pomeriggio autunnale del 1957. E poi, racchiusa nello spazio di una semplice subordinata, c'è pure una terribile promessa: la promessa della persistenza di quel terrore, la promessa di trovarci all'inizio di un lunghissimo e spaventoso viaggio.
Chi ha letto il libro, chi ha visto la miniserie televisiva del 1990 o chi ha semplicemente sentito parlare di It, sa bene cosa ci aspetta nelle pagine seguenti: la corsa forsennata del piccolo George Denbrough nel tentativo di recuperare la barchetta costruita assieme al fratello maggiore Bill, l'incontro con i "due brillanti occhi gialli" nell'apertura di scarico della rete fognaria, il cadavere dilaniato di un bambino di sei anni sul bordo del marciapiede. Il primo, indimenticabile assaggio di un terrore destinato a durare per ventotto anni e per milletrecento pagine.
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Un terrore che dura da oltre trent'anni...
Quando, nel settembre 1986, It fa il suo debutto sugli scaffali delle librerie statunitensi, Stephen King non ha ancora quarant'anni ma è uno degli scrittori più conosciuti della sua generazione e ha già firmato ben ventidue libri, fra cui romanzi di enorme successo come Le notti di Salem, L'ombra dello scorpione (altra opera monumentale nelle dimensioni e nelle ambizioni), Cujo e L'ultimo cavaliere, primo tassello della saga de La Torre Nera; mentre dal suo lavoro hanno preso vita una dozzina di lungometraggi, fra cui cult come Carrie - Lo sguardo di Satana di Brian De Palma, Shining di Stanley Kubrick, La zona morta di David Cronenberg, Christine - La macchina infernale di John Carpenter e, giusto un mese prima, Stand by Me - Ricordo di un'estate di Rob Reiner (ma nell'estate 1986 esce anche l'unico film mai diretto da King in persona, il dimenticabilissimo Brivido). Sull'onda della passione collettiva per lo scrittore di Portland, It si afferma con un autentico fenomeno di massa e diventa il maggiore best-seller dell'anno in America.
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Ad incrementare la già smisurata fama del libro di King, quattro anni più tardi, è la miniserie in due puntate prodotta dalla ABC per la regia di Tommy Lee Wallace; e la delusione dei fan di King nei confronti di questa trasposizione non impedisce all'It televisivo di registrare quasi venti milioni di spettatori nei soli Stati Uniti, di raggiungere un pubblico vastissimo nel resto del mondo e di consegnare agli annali della TV l'agghiacciante Pennywise incarnato da un magistrale Tim Curry. Ma se la miniserie del 1990 non ha retto troppo bene al peso narrativo e alla forza iconografica di un romanzo tanto amato, a ritentare la proibitiva impresa è ora il suo primo adattamento cinematografico: l'It co-sceneggiato da Cary Fukunaga e diretto da Andres Muschietti, con il giovane attore svedese Bill Skarsgård impegnato nell'arduo compito di prestare volto, voce e sogghigni al personaggio eponimo.
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"Una nuvola di polvere, scintille e segatura"
Con una prima parte, sottotitolata The Losers' Club, in uscita l'8 settembre nelle sale americane e il 19 ottobre in Italia, mentre è in cantiere un secondo lungometraggio che porterà sullo schermo le vicende dei medesimi protagonisti da adulti, It è tornato prepotentemente al centro dell'interesse collettivo; e il suo attesissimo esordio sul grande schermo ci fornisce l'opportunità di tornare a rivolgere la nostra attenzione anche alla relativa fonte letteraria. Perché se da un lato la sua fortuna commerciale ha toccato vertici quasi insuperati nella storia editoriale del Novecento, dall'altro un autore come Stephen King non può ancora vantare una completa e unanime canonizzazione fra i 'classici' dell'ultimo mezzo secolo. Vuoi per la sua spiazzante prolificità, guardata spesso con sospetto; vuoi per come sa accattivarsi le simpatie di lettori ascrivibili ad ogni fascia culturale; vuoi per la refrattarietà di molti ambienti accademici a quella narrativa di genere - la fantascienza, il fantasy, il thriller, l'horror - di cui Stephen King è da decenni il più noto alfiere.
Proprio a proposito del dibattito attorno alla figura di King, Nicola Lagioia è intervenuto un anno fa dalle colonne di Internazionale, in un ottimo articolo dal titolo Cosa rende It di Stephen King un capolavoro, analizzando tale divario fra il pubblico e gran parte della critica e difendendo il valore letterario (non sempre riconosciuto) di un'opera come It: "La sua scrittura non sembra uscita da un raffinato salotto parigino ma da una nuvola di polvere, scintille e segatura per come potrebbero vorticare in un ferramenta del Maine dove si ascoltano solo gli AC/DC [...]. Con lo stile di Philip Roth e l'epica di Thomas Pynchon, Stephen King non avrebbe meritato la damnatio memoriae di critici come Harold Bloom. Ma senza quest'atmosfera altrimenti irriproducibile non sarebbe il portentoso rifondatore di immaginario che è". Ed è appunto sull'abilità di King di influenzare il nostro immaginario collettivo che vogliamo soffermarci in attesa del film di Muschietti, ripercorrendo alcuni fra i maggiori elementi di fascino del romanzo e i motivi per cui It può e deve essere considerato uno dei libri più importanti - e più belli - della nostra epoca.
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L'arte di "saper vedere"
Sempre nel primo, celeberrimo capitolo Bill Denbrough, uno dei futuri 'eroi' del romanzo, viene descritto in questi termini: "Bill era un campione nel leggere e nello scrivere, ma nonostante la tenera età George era abbastanza intelligente da capire che quello non era l'unico motivo per cui Bill aveva fior di pagelle e ai suoi insegnanti piacevano tanto i suoi temi. Il suo talento nel raccontare aveva un'importanza solo parziale: Bill sapeva vedere". Il 'dono' di Bill lo accomuna a un altro giovanissimo protagonista kinghiano con un prodigioso talento creativo, il Gordie Lachance del racconto Il corpo (e del film Stand by Me), ma implicitamente riflette anche una delle più grandi virtù di Stephen King: come riesce puntualmente a far 'vedere' ai lettori l'universo da lui descritto. E non si tratta solo della cura minuziosa per i dettagli o dell'impeccabile evocazione di determinate atmosfere: la scrittura di King sprigiona una potenza immaginifica che, di capitolo in capitolo, ci permette di entrare nei meandri dei suoi mondi letterari, di farcene sentire parte integrante, con un effetto di mimesi che ha pochi eguali fra gli autori contemporanei.
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È la ragione della proverbiale densità della prosa kinghiana; del perché, per esempio, il secondo capitolo di It ricostruisce un fugace episodio di cronaca, l'omicidio di un uomo di nome Adrian Mellon durante il Festival del Canale di Derry, nell'arco di ben ventisette pagine, delineando con precisione geometrica una galleria di personaggi secondari che da lì in poi spariranno del tutto dalla trama. In It tali digressioni, o piuttosto le 'diramazioni' di un intreccio incredibilmente composito, non sono semplici riempitivi né meri esercizi di stile, ma risultano essenziali a quella mimesi di cui si parlava poco fa: servono a restituirci il senso di realtà della storia di Derry, dei suoi protagonisti e della mostruosa creatura intenta a dar loro la caccia. E nel restituire questo senso di realtà, mantenendo la sospensione dell'incredulità perfino nei momenti più estremi del racconto, Stephen King è innegabilmente un maestro. Non c'è da stupirsi dunque se nel terzo capitolo la morte di uno dei comprimari, preannunciata con oltre venti pagine di anticipo da sinistre allusioni, è il culmine di un logorante crescendo di angoscia che il lettore non può fare a meno di condividere con Patricia Uris, grazie alla capacità di King di farci percepire ogni pensiero e sensazione della donna con incredibile vividezza.
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"Era questa città"
Gli esempi riportati ci riconducono direttamente sia alla natura di It, sia al segreto del suo cupo potere di fascinazione: It, come (e più) di altre opere dell'autore, è un meraviglioso romanzo polifonico. Un romanzo in cui King, dal primo al secondo capitolo, non solo compie un salto cronologico di ben ventisette anni (è solo il primo gradino di una struttura drammaturgica messa in piedi su due linee temporali parallele ma molto distanti l'una dall'altra), ma dà inizio a un continuo susseguirsi di oscillazioni della nostra prospettiva. La storia di It, pertanto, non ci viene raccontata secondo un punto di vista univoco, ma è la somma degli innumerevoli 'frammenti' vissuti da una quantità sterminata di personaggi, a cui il narratore onnisciente dell'incipit cede di volta in volta la parola, mantenendo la terza persona ma aderendo in tutto e per tutto al loro sguardo e ai loro moti interiori.
A partire da quelli dei sette focalizzatori privilegiati: i componenti del cosiddetto Club dei Perdenti, che conosceremo nelle parti di romanzo ambientate fra il 1957 il 1958, quando Bill e i suoi amici sono sette ragazzi più o meno emarginati che cercano di sottrarsi al malessere della loro vita quotidiana nella pigra e desolata provincia del Maine; e che, contemporaneamente, troveremo adulti nel 1984, alle soglie dei quarant'anni, quando una telefonata che non avrebbero mai voluto ricevere ricorderà loro la necessità di riprendere la lotta intrapresa ventisette anni prima, facendo ritorno nella cittadina natale di Derry. Quella Derry dipinta non solo nel suo squallore di periferia semidimenticata di una nazione, ma come il palcoscenico di un Male cosmico e ineluttabile: "'[...] il clown si è girato a guardarmi. Gli ho visto gli occhi e tutt'a un tratto ho capito chi era.' 'Chi era, Don?' domandò Harold Gardener in tono comprensivo. 'Era Derry', rispose Don Hagarty. 'Era questa città'".
Il Male che ride
Giungiamo così al nucleo del libro di Stephen King, e più in generale di gran parte della sua produzione: il confronto con il Male. Un Male che, in It, è sia una forza esterna, quella spirale di follia e di violenza che ciclicamente si abbatte su Derry e i suoi abitanti, sia un'entità endemica all'essere umano: un'entità multiforme proprio per la sua essenza di pura astrazione, di Male assoluto. Il nome stesso della creatura è emblematico: It, il pronome neutro della lingua inglese, l'indefinitezza racchiusa in due lettere. Il volto ormai iconico di It corrisponde alla faccia bianca con ciuffi di capelli rossi di Pennywise, il clown ballerino, illustre esponente di una tradizione di "pagliacci malefici" (si pensi al Joker, ma pure alla radice letteraria rintracciabile ne L'uomo che ride di Victor Hugo), il quale però è solo la più frequente delle manifestazioni visive di It. Uno, nessuno e centomila, come molteplici sono le declinazioni dell'orrore per ogni singolo individuo; e difatti, ciascun personaggio sarà perseguitato da It in maniere e con sembianze diverse.
King, però, non si limita - obiettivo già di per sé lodevole - ad orchestrare una sublime sinfonia dell'orrore, innescando pagina dopo pagina un gigantesco, infallibile meccanismo di inquietudine e di suspense, ma spinge le proprie ambizioni ancora più avanti. King utilizza codici e stilemi del genere horror mescolati in un formidabile amalgama, con elementi paranormali e sfumature quasi gotiche, per parlare di noi stessi, delle nostre fragilità e delle nostre paure; della dolorosa privazione dell'innocenza di chi si accinge ad entrare nella fase adolescenziale (è significativo che, per Bill, la storia si apra con la prima, lancinante esperienza di lutto e di perdita) e della presa di coscienza delle storture del mondo che contraddistingue invece l'età adulta. E nel lasso di tempo che intercorre fra questi due momenti del percorso esistenziale dei protagonisti c'è praticamente tutto: la famiglia e l'amicizia, l'odio e l'amore, il coraggio e la paura, l'inesorabile smarrimento giovanile e la faticosa, progressiva costruzione della propria identità. Ed è il motivo per cui, oltre ad essere un caposaldo del genere horror, It rappresenta anche e soprattutto uno dei più straordinari e appassionanti racconti di formazione che la letteratura del nostro tempo abbia saputo regalarci.