Recensione Spun (2002)

Lo sguardo freddo sui personaggi preclude ogni coinvolgimento nei loro confronti, saccheggiando dal nostro animo la compassione, il sentimento che dovrebbe muovere le emozioni e renderci partecipi di sofferenze qui neppure immaginabili.

Il valzer bianco delle anime grigie

Le buone intenzioni di certi esseri umani muoiono presto, arrugginite nell'oblio in cui giacciono immobili. Le piccole cose, desideri appannati, sono ridicolizzate dall'estasi ingannevole di momenti brevi quanto un sospiro. La magia bianca traccia sempre lo stesso percorso fino a diventare routine e mutare in necessità. Perché quando ci si perde l'unica cosa che conta è preservare il proprio egoismo, renderlo inattaccabile, per sfuggire la dipendenza da braccia umane e abbandonarsi in quello spazio minimo che unisce la Terra al Paradiso.

Spun è il ritratto insensibile di esistenze dimenticate dagli stessi proprietari, costantemente impegnati nella ricerca di un piacere del tutto personale ed inconsistente. Uno scopo che si alimenta d'inerzia e prevede noncuranza. Calpestare la dignità umana, la propria e quella degli altri, in nome della religione Adrenalina, nella quale Dio è un cristallo bianco da invocare con le narici libere e le vene gonfie. Giorni conditi da prelibata metamfetamina che insaporisce di sane allucinazioni prestazioni sessuali altrimenti abuliche e che nutre di coraggio quelle piccole e grandi missioni che saturano la vita di tutti i giorni.

Un cast di stelle e stellette reclutate per dipingere questa quotidianità disgraziata di uomini senza amor proprio, personaggi da onorare nel loro disonore, accettando di vestirsi per un breve passaggio di uno squallore disturbante con la pretesa di regalare un divertimento che raramente arriva. Un film corale che trova i suoi interpreti migliori in Mickey Rourke, il Cuoco impassibile dai contorni disumani ma che sarà anche l'unico a cercare una qualche forma di redenzione, Jason Schwartzman, il suo tirapiedi Ross, spietato ed ingenuo allo stesso tempo, che accarezza l'illusione di un sentimento talmente vago che verrà presto inghiottito dalla realtà dei fatti, e John Leguizamo, lo schizofrenico spacciatore Spider Mike, autore di una stravagante performance d'autoerotismo, scena culmine in cui esplode quello humor che per tutto il resto del film è solo accennato, causa una sceneggiatura assolutamente mediocre. Come pesci fuor d'acqua due nomi più o meno grandi quali Mena Suvari, ninfetta di American Beauty qui imbruttita all'inverosimile, e Peter Stormare, la cui prestazione disastrosa è frutto di un ruolo infelice.

Spun è figlio illegittimo di Requiem for a Dream, abbagliante gioiello di Darren Aronofsky e primo vero capolavoro del nuovo millennio, ma è orfano della sua furia emozionale dalle conseguenze devastanti. Will De Los Santos e Creighton Vero si sono dimenticati di scrivere un racconto, preferendo mettere assieme un collage di situazioni che hanno vissuto o di cui hanno sentito parlare, o che forse si sono soltanto immaginati, finendo con lo scattare fotografie dai colori vividi, ma delle quali non conosceremo mai la storia. Jonas Åkerlund, sgravato dal compito di dover rispettare un plot ben definito, si è così potuto scatenare, mettendo in pratica tutto ciò che ha imparato nella sua brillante carriera di regista di videoclip musicali, trasformando quelle fotografie in un coacervo di invenzioni visive dal fascino magnetico che comprano gli occhi dello spettatore, ma non il suo cuore. L'essenza del film è tutta nel montaggio frenetico che strizza l'occhio a una generazione cresciuta a videogames ed MTV, la cui percezione visiva è stata sapientemente violentata in modo da annullare ogni possibile trauma che una regia e un'edizione così sgrammaticate potrebbero comportare.

Spun non lascia niente. Lo sguardo freddo sui personaggi preclude ogni coinvolgimento nei loro confronti, saccheggiando dal nostro animo la compassione, il sentimento che dovrebbe muovere le emozioni e renderci partecipi di sofferenze qui neppure immaginabili. Il film non ha di queste pretese perché è fondamentalmente una commedia, tutt'altro che brillante, sublimata da uno stile accattivante che ne giustifica ampiamente la visione, nonostante la debolezza narrativa.