Recensione Jackie Brown (1997)

Un film che segna un primo passo verso un cinema meno narcisistico, più concreto, ma che comunque non rinuncia a quelle caratteristiche autoriali che Quentin Tarantino aveva già espresso nelle precedenti opere.

Il triplo gioco di Mrs. Brown

Dopo gli straordinari successi di critica e pubblico ottenuti con Le iene e Pulp Fiction, Quentin Tarantino, l'enfant terrible di Hollywood, torna a fare cinema partendo, per la prima volta, da una soggetto non suo, ma tratto da un romanzo di Elmore Leonard, Rum Punch. Un passo coraggioso e controtendenza, un primo passo verso un cinema meno narcisistico, più concreto, ma che comunque non rinuncia a quelle caratteristiche autoriali che già aveva espresso nei film precedenti e che erano diventati simboli di un modo nuovo di intendere e fare cinema. O forse l'unico passo possibile, perché realizzare un nuovo Pulp Fiction sarebbe stato un vero e proprio suicidio artistico.
E' così che Tarantino abbandona, momentaneamente, il sottomondo surreale e pulp dell'opera precedente o quello crudo e violento de Le iene, per seguire le (dis)avventure di una hostess di colore, la Jackie Brown del titolo, che arrotonda i propri guadagni facendo da corriere per Ordell, un ricettatore di armi di Los Angeles. Quando la polizia arresta Jackie con la speranza di incastrarlo, parte un intreccio di situazioni che vedrà tra i protagonisti anche Max Cherry, un garante di cauzioni che si trova coinvolto in qualcosa di più grande di lui soltanto per amore della bella Jackie. Concludono il quadro Louis Gara, uno stralunato scagnozzo di Ordell, e Melanie Ralston, una delle protette del trafficante.

Un semplice thriller, quindi, in cui il regista per la prima volta si mette a servizio della storia, piuttosto che costruire la storia attorno alle proprie preferenze cinematografiche e culturali, ma allo stesso tempo un omaggio alla blaxploitation del cinema americano degli anni Settanta: già il nome della protagonista (una delle poche modifiche, insieme allo scenario spostato da Miami a Los Angeles, apportate dallo script di Tarantino al romanzo di Leonard) è un chiaro richiamo alla giustiziera del ghetto nero, Foxy Brown, intepretata nel 1974, guarda caso, proprio da Pam Grier. Ma a tenere alto il nome del cinema black non c'è solo la rediviva, ma non per questo sottotono, Grier, ma anche il fedele Samuel L. Jackson in una delle sue migliori interpretazioni: il suo Ordell è freddo, feroce ma allo stesso tempo estremamente affascinante. Un po' l'opposto del Max Cherry ritratto, altrettanto magistralmente, da Robert Forster, altro ex-divo tornato alla ribalta grazie al film di Tarantino, a cui però spettano due delle scene chiave del film: il triplo flashback al centro commerciale e la sequenza d'addio che conclude la pellicola.

Scene, queste, in cui il regista decide di far sentire maggiormente la sua presenza e dare libero sfogo al suo talento e alla sua straordinaria capacità di miscelare generi tra loro contrapposti, così da confondere e sbalordire lo spettatore meno smaliziato e allo stesso tempo strizzare l'occhio ai cinefili più accaniti. Per la scena clou della doppia "truffa" ancora una volta Tarantino sceglie di sorprenderci con un suo stile personale ma comunque ereditato dalla sua sconfinata cultura cinematografica: i vari flashback che mostrano la stessa azione nello stesso luogo e nello stesso tempo, ma dai punti di vista di tre personaggi diversi, non sono forse una versione rielaborata e moderna di quello che già Akira Kurosawa aveva utilizzato nel suo strabiliante Rashomon? E cosa c'è di più sorprendente nel vedere il più duro dei giovani registi chiudere il suo film senza fuochi d'artificio, senza alcun colpo di scena, ma semplicemente in beata contemplazione dei suoi due protagonisti, incapaci di lasciarsi andare ed amarsi, incapaci anche solo di esprimere i propri sentimenti e desideri, mentre si allontanano, probabilmente per sempre, e intanto riparte la straordinaria colonna sonora. Ovviamente black e anni '70.

Movieplayer.it

4.0/5