Le funzioni primarie del cinema si possono dividere nell'alterazione della realtà e nella restituzione della realtà, solo dopo è arrivata la sua rielaborazione critica, analitica, ragionata. Una tale ricostruzione è mossa da una volontà politica che nella maggior parte dei casi può essere corretto indicare come volta a dimostrare di una tesi capace di sollevare delle domande, possibilmente ancora attuali. Inutile dire che le pellicole nate sotto questa stella si interessarono più che altro della rilettura di grandi fatti storici, anche tragici, indagandone magari le origini e provando a rileggerli guardando al contemporaneo.
Uno di questi grandi fatti storici è stata la Shoah, uno degli eventi più traumatizzanti della Storia, per i quali è sempre valso un discorso a parte quando si è trattato della moralità con la quale doveva venire rappresentata (anche se ci sono stati autori in grado di emanciparsi da quella sorta di codex etico che era nato, uno su tutti Quentin Tarantino con Bastardi senza gloria) e che è tutt'oggi interessante come soggetto cinematografico, data la sempiterna incapacità di realizzare da dove può nascere un orrore del genere e, parallelamente, prendere consapevolezza che non si è mai troppo lontani dal poterlo rivivere. Jonathan Glazer si è occupato di quest'ultimo aspetto con La zona d'interesse (qui la nostra recensione), vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria a Cannes 76 e candidato a due Premi Oscar per il 2024, mentre del primo ha trattato forse meglio di chiunque altro Michael Haneke nel suo Il nastro bianco, Palma d'oro sulla Croisette nel 2010.
Messi in relazione i due titoli possono quasi essere letti come due fasi conseguenti del medesimo discorso e, con le dovute differenze di linguaggio, provenienti da una matrice comune, ovvero quella di legare questo orrore, questo male, alla famosa banalità citata da Hannah Arendt. Una banalità che nasce dal quotidiano, dal microcosmo a cui apparteniamo noi tutti, di cui spesso siamo addirittura fautori, oppure (e forse ancora peggio) incapaci di renderci conto di quello che sta accadendo sotto i nostri occhi mentre siamo occupati ad alimentare il nostro ego.
La nascita del male
Il nastro bianco è il film con cui Haneke ha raccontato la nascita di quella generazione tedesca che poi si è resa protagonista di uno dei più grandi genocidi della Storia. Lo ha fatto in modo "indiretto", concentrandosi su di un arco temporale della vita di un piccolo villaggio nella prima decade del '900 attraverso gli occhi di uno straniero, un maestro guarda caso interpretato da Christian Friedel, lo stesso attore scelto da Jonathan Glazer per vestire i panni del suo Rudolf Höß. Un anello di congiunzione che definire casuale sarebbe veramente ingiusto, anche perché in entrambi titoli egli è l'unico chiamato a vivere un momento di consapevolezza grazie al quale ha accesso ad una porta ad oltre le barriere del quotidiano per vedere qualcosa al di là del suo tempo e del suo spazio.
Il maestro racconta le vicende narrate nel film di Michael Haneke, fungendo da mediatore tra esse e lo spettatore. Gli strani e tragici fatti che accadono agli abitanti del villaggio rimangono sempre fuori campo e fuori la coscienza filmica perché, d'altro canto, la pellicola non si vuole occupare della loro rivelazione, ma vuole invitare a comprendere come essi siano fatalmente legati alla regolazione della vita di coloro che ne sono apparentemente vittima. La scelta di non far vedere l'attuazione di queste macchinazioni permette a chi guarda di adottare il punto di vista degli abitanti del e allo stesso tempo riflettere sul sottobosco silente avvelenato del villaggio, probabile origine del male che su schermo pensiamo di non vedere, quando invece avviene davanti ai noi continuamente. Nascosto dai rituali religiosi, il linguaggio forbito, la pudica accoglienza e il tono calmo di coloro che detengono il potere nella comunità.
Un mondo apparentemente perfetto e invece fertile terreno per il seme del male futuro, dove l'autoritarismo e il culto della perfezione della mente e dello spirito creerà una prole piena di veleno e odio verso il diverso, celati da un semplice simbolo di innocenza, come può essere un nastro bianco posto sul loro braccio dai padri. Antenato metaforico di un simbolo altrettanto semplice, che sarà la prole stessa, una volta cresciuta, a porre sul braccio di altri per segnalare un'etnia che per loro mai potrà dirsi innocente. La corruzione dello spirito nello sguardo di un bambino, lo stesso che osserverà, anni dopo, nel giardino di casa sua, un oggetto alieno, proveniente dall'inferno posto solo un salto di muro più in là.
La zona d'interesse: Jonathan Glazer ci spiega il significato del finale
L'orrore sta nell'incapacità di vedere
Vista attraverso gli occhi di Jonathan Glazer la pellicola di Haneke potrebbe esser stata quasi una origin story narrata secondo una trovata cinematografica ispiratrice, grazie alla quale il cineasta britannico ha trovato una chiave di lettura per rivoluzionare il modo di raccontare il dramma della Shoah. Verbo non usato a caso dal momento che La zona d'interesse non solo riesce a continuare la narrazione della vita della generazione marchiata dal nastro bianco, ma coglie anche il motivo che rende l'orrore banale, ovvero la sua capacità di scomparire nelle nostre meschinità, siano esse ambizioni di carriera o problemi matrimoniali. Trovata narrativa già contenuta nel romanzo di Martin Amis, dal quale il titolo è tratto.
Anche nel caso del film diretto da Glazer la manifestazione del male accade fuori campo, anche se in questo caso il suono è utilizzato come suo messaggero, essendo una forza narrativa talmente potente da invadere l'area visiva e, conseguentemente, tutto ciò che viene mostrato, inondando di colore sonoro l'intera inquadratura. Non è possibile vedere chiaramente, non è possibile mettere a fuoco il male perché ne saremmo fatalmente travolti, vittime di una consapevolezza sempiterna e impossibile da sorreggere, anche, forse, per coloro che ne sono fautori, nonostante abbiano perso l'innocenza da bambini.
L'orrore reale che ci hanno raccontato i due autori è probabilmente proprio questo: una cecità così profonda da arrivare ad una negazione della realtà, fino a renderla grottesca e, appunto, irreale. Non c'è una violenza maggiore che l'uomo può fare agli altri e, in un certo senso, anche a se stesso. Glazer è straordinario quando finalmente mostra il controcampo, perché decide di farlo mostrando un atto di bontà dove tutti si aspetterebbero le atrocità, rappresentandolo in negativo. La miopia persiste anche qui, al punto che un gesto del genere può essere percepito solamente come appartenete ad un mondo alla rovescia. Questo "germe" che pota all'accettazione di una realtà distorta è però fatalmente collegato alla nostra natura, tanto da attraversare le epoche e i momenti storici, arrivando purtroppo fino al giorno d'oggi. Una condanna che il cinema è riuscito più volte a denunciare, ma che recentemente solo Il nastro bianco e La zona d'interesse, sono riusciti ad esprimere in modo così netto e forte, riuscendo a trovare la medesima matrice semantica e linguistica.