Infiacchito, decadente e deluso ormai dalla politica di regime soprattutto per il progressivo avvicinamento di Mussolini a Hitler. Un uomo fragile, malato e solitario colto nell'ultimo tratto del corridoio della vita. Così Gianluca Jodice sceglie di rappresentare Gabriele D'Annunzio nel suo debutto alla regia, Il cattivo poeta, in sala dal 20 maggio. Il titolo, dice, "viene da un'espressione usata dallo stesso D'Annunzio per definirsi", un modo ironico e affettuoso per affrancare la sua cattiveria.
Il film, che si muove abilmente tra i codici dell'opera storica reinventandoli, è un rigoroso biopic incentrato sugli ultimi anni del poeta, quelli tra il 1936 e il 1938, alla viglia dell'alleanza tra l'Italia e la Germania nazista, mal tollerata dal Vate che diventa per il regime fascista un personaggio scomodo e dunque da tenere sotto stretta sorveglianza. Per spiarlo e controllare ogni sua mossa, il partito manda al Vittoriale, la casa-mausoleo dove D'Annunzio vive ormai esiliato da quasi un decennio, Giovanni Comini, giovane federale bresciano la cui fede inizierà a vacillare man mano che la vicinanza al poeta inizierà a farsi più intima e umana. Un'opera crepuscolare, illuminata dalla fotografia di Daniele Ciprì e interpretata da un cast capace di restituire una prova attoriale di spessore: dal codazzo di comprimari che si agitano attorno alla figura dell'inquieto poeta a Sergio Castellitto che lo interpreta, fino alla rivelazione di Francesco Patanè, nei panni di Comini.
La video intervista a Sergio Castellitto e Gianluca Jodice
Il cattivo poeta, la recensione: D'Annunzio tra modernità e decadenza
Girare al Vittoriale
Prodotto da Matteo Rovere e Andrea Paris, e scritto dallo steso regista sulla base del libro di uno storico e giornalista che raccolse alcuni discorsi dello stesso D'annunzio e tutte le lettere tra il segretario del partito fascista Starace e Comini, Il cattivo poeta è stato interamente girato tra le stanza del Vittoriale, che rappresenta quasi una scenografia naturale, la condizione senza la quale il film non sarebbe stato lo stesso.
"È la geografia dell'anima di D'Annunzio - commenta Sergio Castellitto - _Non è un luogo di antiquariato ma archeologico, un museo, una sorta di placenta: rappresenta tutto ciò che è stato potenza, morte, decadenza e voglia di vivere. Le scenografie di questo film le ha praticamente fatte D'Annunzio".
Una scelta che fa parte del rigore filologico che caratterizza il film: "La struttura portante è il diario scritto da Comini in quei due anni. Ogni parola che sentirete è stata realmente pronunciata da D'Annunzio", precisa Gianluca Jodice, regista esordiente anche se di anni ne ha 43: "Ho cercato di inserirmi nella consuetudine del cinema italiano di prima, oggi le opere prime giocano invece di rimessa. Aver esordito tardi mi ha dato modo di essere più sfacciato", seppur all'interno di quella che definisce una confortevole "gabbia".
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D'Annunzio, un eroe decadente
E sulla scelta di un personaggio mai raccontato dal cinema italiano se non nel 1987 da Sergio Nasca, racconta: "Mi affascinava l'immagine del poeta recluso in questo castello di Dracula tra ossessioni, perversioni, cocaina e donne in cui aveva perso anche la sua verve. È una specie di Nosferatu che ha subito una damnatio memoriae dalla cultura del Novecento, era diventato un personaggio scomodo, contraddittorio e complesso".
A interpretarlo è Castellitto, che oltre ad una trasformazione fisica che lo rende straordinariamente somigliante, conferisce alla figura di D'Annunzio tutta la potenza di un uomo solo, visionario e malato, ricurvo sulle proprie ossessioni: "Mi sono tagliato completamente i capelli, che non è solo un fatto di artigianato e identificazione fisica, ma un atto di generosità: la prima immagine che viene in mente pensando a D'Annunzio è il cranio vuoto di capelli ma pieno di fantasia, crudeltà, pericolosità. Viene fotografato nel corridoio finale della vita e in quel controcampo della giovinezza (Comini) che ha davanti a sé più futuro che passato", spiega. Ed è convinto che il suo sia paragonabile a quello di "una rock star moderna". "Non c'è stato uomo più maledetto e odiato in morte: Arbasino lo definiva un cadavere da conservare in cantina, Pasolini lo detestava, per Elsa Morante era un imbecille". Ma questo film conferma una certezza, "che era un genio. Le uniche figure a lui assimilabili sono quella di Pasolini, perché entrambi sono stati poeti-soldati, i primi a uscire dalla trincea e a prendere il colpo in fronte, l'altro è Curzio Malaparte, fascista della prima ora, poi polemico e critico. Questo trittico esprime la possibilità di rileggere l'intelletto italiano in un altro modo".
Il segreto per interpretarlo? Non avere paura della grandezza del personaggio, "in genere faccio sempre finta che il personaggio sia inventato aldilà della storicità dei fatti. Inventi anche quando devi ricostruire mondi esistiti. Mai guardare la performance, il nostro lavoro non è quello", aggiunge. Diversi i rimandi de Il cattivo poeta alla contemporaneità, nonostante Jodice ci tenga a sottolineare di aver voluto realizzare "un film inattuale", e di essersi limitato a interrogare un'epoca e un momento storico "tuffandomici dentro senza necessariamente dover rintracciare l'attualità politica di oggi".