Fare un film significa migliorare la vita, sistemarla a modo proprio, significa prolungare i giochi dell'infanzia.
Il 30 aprile 1959, I 400 colpi è il film che inaugura la dodicesima edizione del Festival di Cannes. Si tratta di un'edizione particolarmente importante negli annali del Festival: la Palma d'Oro verrà attribuita a Orfeo negro di Marcel Camus e Luis Buñuel otterrà un riconoscimento con uno dei suoi lavori più controversi, Nazarín, ma a lasciare l'impronta più profonda sono due opere prime destinate a segnare un'autentica rivoluzione nel cinema dell'epoca, e non solo in Francia. Una è Hiroshima mon amour, primo lungometraggio di finzione del documentarista Alain Resnais, e l'altra è appunto I 400 colpi, il folgorante esordio del ventisettenne François Truffaut.
Allievo e discepolo di André Bazin e critico militante, ad appena vent'anni, dalle colonne dei celeberrimi Cahiers du cinéma, François Truffaut viene ricompensato dalla giuria di Cannes con il premio per la miglior regia. Nel frattempo, il 4 maggio I 400 colpi approda nelle sale francesi e nell'arco dei mesi a venire registra un successo oltre ogni previsione, con quattro milioni di spettatori sul territorio nazionale. Nell'arco di un anno la pellicola di Truffaut sarà distribuita in tutto il mondo, America inclusa, otterrà la candidatura all'Oscar per la miglior sceneggiatura originale e sancirà la definitiva affermazione di quella nuova, irresistibile corrente cinematografica passata alla storia come Nouvelle Vague.
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A partire dalla propria attività di critico François Truffaut si era già adoperato, al fianco di altri futuri cineasti (i "giovani turchi"), a porre le basi teoriche di un'idea di cinema completamente nuova, che rifiutava i modelli coevi a favore di un concetto di 'autorialità' fino ad allora pressoché inedito in campo filmico. Cinque anni prima de I 400 colpi, Truffaut aveva espresso tale spirito iconoclasta in Une certaine tendance du cinéma français, un saggio dai toni polemici in cui professava il desiderio di un cinema caratterizzato da maggiore libertà: libertà di ispirazione, libertà di rompere le convenzioni per tentare strade mai battute prima di allora, libertà di trasformare il film da semplice prodotto industriale ad autentica opera d'arte nelle mani di un regista/autore.
Nella seconda metà degli anni Cinquanta, i fermenti contro il cosiddetto "cinema di papà" fanno emergere una nuova generazione di cineasti, che realizzano i loro primi lavori con pochi mezzi e una grande dose di coraggio. Nel 1955 la fotografa ventisettenne Agnès Varda, futura madrina della Nouvelle Vague, debutta dietro la macchina da presa con La pointe courte, uno dei film più innovativi del decennio (a lei e a La pointe courte rende omaggio il manifesto di Cannes 2019). All'inizio del 1959, con l'amaro ritratto della vita di provincia offerto ne Le beau Serge, il regista esordiente Claude Chabrol segna l'atto di nascita della Nouvelle Vague; da lì a pochi mesi seguiranno I cugini dello stesso Chabrol, premiato con l'Orso d'Oro al Festival di Berlino, I 400 colpi e Hiroshima mon amour, tutti accolti trionfalmente da critica e pubblico. La primavera del 1959 vedrà approdare nelle sale anche Il segno del leone, opera prima di un altro protagonista della Nouvelle Vague, Eric Rohmer, mentre nel 1960 sarà la volta di Jean-Luc Godard con il leggendario Fino all'ultimo respiro.
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Antoine Doinel: ritratto dell'artista da giovane
I 400 colpi, cronaca dell'adolescenza del giovanissimo Antoine Doinel, sancisce in qualche modo il "punto di non ritorno": il film spartiacque, quello che segnerà un 'prima' e un 'dopo' nel cinema francese. La sincerità disarmante dell'opera, il senso di partecipazione e di complicità che trapela da ogni inquadratura, sono il frutto di una matrice autobiografica rimarcata dallo stesso Truffaut, che nel personaggio di Doinel costruisce un autentico alter ego, ripreso poi in più occasioni: "Nel film non c'erano esagerazioni, anzi, ho omesso cose che potevano sembrare inverosimili". Le omissioni riguardano in particolare l'occupazione tedesca e il dopoguerra, scenario dell'infanzia e dell'adolescenza del regista, che ne I 400 colpi sceglie invece di concentrarsi sulla 'normalità' inquieta del piccolo Antoine.
E ad offrire volto, voce e sguardi all'inquietudine di Antoine, con una spontaneità a dir poco prodigiosa per un attore semiesordiente, è il quattordicenne Jean-Pierre Léaud, che colpisce immediatamente l'attenzione di Truffaut. Fra i due si instaura un'alchimia fortissima, dentro e fuori dal set: "Io vedevo Antoine più fragile, più indifeso, meno aggressivo, Jean-Pierre gli ha dato la sua forza, la sua aggressività, il suo coraggio. È stato un collaboratore prezioso, per istinto trovava i gesti giusti, rettificava il testo, sempre con esattezza, e impiegava le parole che aveva voglia d'impiegare". L'energia di Jean-Pierre Léaud, l'istinto di ribellione ("faire les quatre cents coups" è un'espressione francese equivalente a "fare il diavolo a quattro") e il bisogno di tenerezza stampati sul suo viso, sono gli elementi in grado di rendere Antoine Doinel un protagonista dolorosamente autentico e perfettamente credibile.
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La rabbia giovane e l'anelito di libertà
Jean-Pierre Léaud tornerà a rivestire il ruolo di Doinel nel corto del 1962 Antoine e Colette, incluso nel film a episodi L'amore a vent'anni, e in seguito, da adulto, nelle pellicole Baci rubati (1968, un altro dei classici di Truffaut), Domicile conjugal (1970, rititolato in italiano Non drammatizziamo... è solo questione di corna) e L'amore fugge (1978). In tutto, vent'anni nella vita di un personaggio cresciuto insieme al suo interprete: un personaggio romantico e sfrontato, che ne I 400 colpi marina spesso la scuola in compagnia dell'amico René (Patrick Auffay), mente ai suoi professori e non riesce a costruire un vero dialogo né con la madre Gilberte (Claire Maurier), né con il patrigno Julien (Albert Rémy). Truffaut mette in scena le giornate del ragazzo facendo sì che la narrazione aderisca in tutto e per tutto alla prospettiva di Antoine, sempre presente sullo schermo e in lotta contro un mondo di adulti talvolta egoisti ed ipocriti (a partire dai suoi genitori) e poco disposti a comprenderlo.
Attraverso la figura di Doinel, e le sue scorribande in una Parigi ripresa con un realismo carico di poesia, il neo-regista François trova il modo per raccontare se stesso: la rabbia di un (ex) adolescente intimamente legato all'infanzia (a cui dedicherà Il ragazzo selvaggio e Gli anni in tasca), il cinema come forma di evasione prediletta, la passione viscerale per la letteratura (indimenticabile l'altare di Antoine per Honoré de Balzac, suo modello per un tema scolastico) e soprattutto l'insopprimibile anelito di libertà. Una libertà riconquistata a fatica, almeno sul piano simbolico, in uno degli epiloghi più celebri e struggenti del grande schermo: la fuga dal riformatorio e la corsa lungo la spiaggia battuta dalle onde, fino a quell'indimenticabile fermo-immagine in cui gli occhi di Antoine paiono rivolgersi alla macchina da presa, colmi di smarrimento e desiderosi di affetto.