In una partita di basket non hai tempo per pensare, ma devi correre, placcare gli avversari, mirare e lanciare la palla a canestro. Il cuore batte al ritmo dei rumori delle scarpe sul parquet, mentre la mente elabora, costruisce uno schema che permetta al corpo di fuggire da mani che interferiscono al proprio gioco, per schiacciare e raccogliere punti. Come sottolineeremo nella nostra recensione di Hustle, il film diretto da Jeremiah Zagar (e prodotto tra gli altri anche da LeBron James) è tutto modellato come una partita di basket. La sua resa visiva e la sua costruzione registica, tentano di dare l'impressione di trovarsi nel cuore dell'azione, facendo del film un racconto a stazioni, in cui ogni passaggio prova a sostituirsi e riproporre i momenti che segnano le fasi preparatorie di un match, e la loro compiutezza sul campo. E così, la macchina da presa si sostituisce alla palla, il montaggio alle gambe degli atleti, mentre lo spettatore si dimentica per un attimo di affacciarsi su uno schermo per essere inebriato dal senso di adrenalina, e dal movimento di una partita al cardiopalma.
HUSTLE: LA TRAMA
Era una promessa del basket pronta a elevarsi a stella dello sport Stanley Beren "Sugarman" (Adam Sandler). Poi un colpo di sonno, un incidente e alla carriera di atleta si fa largo quello di talent scout. A un passo dal tanto agognato avanzamento di carriera nel ruolo di "assistant coach" Stanely perde il lavoro a causa degli screzi con il nuovo patron della squadra (Ben Foster). Eppure l'uomo non demorde e dopo aver scoperto un giocatore eccezionale ma dal passato turbolento, decide di convincere il fenomeno sportivo a trasferirsi negli Stati Uniti e, pur senza chiedere l'approvazione della squadra, tenta di trasformarlo in una stella del basket. Contro ogni previsione, i due avranno un'ultima occasione per dimostrare di essere all'altezza dell'NBA.
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HUSTLE E L'ARTE DEI PERDENTI
Puntare su atleti perdenti, dimenticati, per riprenderli dal basso, ripulirli e farli di nuovo brillare è un'arte. Se un'arte della vittoria, o della sconfitta sarà il tempo a deciderlo. Ciononostante, c'è qualcosa di magico nel racconto della rinascita e della rivincita personale di uomini e donne che dagli errori vengono allontanati e lanciati verso un nuovo destino. Se un'opera come Moneyball - L'arte di vincere si concentra sulla componente umana, sviluppando un discorso volto a tratteggiare gli alti e bassi di un allenatore coraggioso, che non ha paura di puntare su atleti mancati, dimenticati, acciaccati, Hustle volge il proprio sguardo indagatore sulla restituzione adrenalinica e faticosa dello spettacolo sportivo. Partendo dalla ricerca di una nuova stella da inserire nella rosa della propria squadra, passando per una delle sequenze di allenamento più lunghe della storia del cinema, fino alle selezioni e alle difficoltà personali, tra alti e bassi di un giocatore in preda dei propri istinti, Hustle è un romanzo della formazione sportiva che tralascia la retorica per concentrarsi sulla spettacolarità di una disciplina così sentita e osannata in terra americana come il basket. Ogni inquadratura è dunque costruita con l'intento di ridare indietro l'imprevedibilità e il continuo movimento di questo sport; incapace di star ferma, la cinepresa di Zagar si avvale di un montaggio dinamico, dove ogni raccordo è un passaggio di palla repentino, che prende lo sguardo dei propri spettatori per immergerlo all'interno della storia. Perfetta commistione tra Space Jam, Rocky e uno spot pubblicitario fortemente motivazionale firmato da brand come Nike e Adidas, Hustle gioca su un campionario visivo riconoscibile e per questo fortemente immersivo in un gioco da compiersi fuori e dentro il campo, trovando nello spazio di una cornice cinematografica il suo nuovo spazio di azione. Forte di una sceneggiatura che riduce le parole al grado 0 (eccezion fatta per Adam Sandler), per esaltare la propria controparte visiva, Hustle vanta l'abilità di sfruttare il linguaggio universale della potenza delle immagini e dei dettagli fisici come contenitori di mille parole ed emozioni tenute sottaciute, per farsi apprezzare sia da tifosi e appassionati di basket, che da coloro che si definiscono poco avvezzi a questo mondo.
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IL GIOCO DEGLI OPPOSTI
C'è una dicotomia fisica e prossemica a distanziare, per poi unire, Bo Cruz e il suo mentore, Stanley Sugarman. Perennemente in corsa, o colto nel suo peregrinare alla ricerca di un posto nel mondo il primo; seduto, colto a osservare, analizzare, guidare, parlare con battute al vetriolo il secondo. Da questa opposizione si genera una complicità unica da riversare sul campo, cinematografico e sportivo. Prestato al mondo del cinema, la star degli Utah Jazz, Juancho Hernangomez sembra a suo agio nei panni di Bo Cruz, offrendo un'interpretazione credibile e umana. Lo seguiamo nelle sue sessioni estenuanti di allenamento prima, e sul campo poi, ed è soprattutto in queste fasi che il giocatore si mostra più sicuro perché colto nel suo habitat naturale. Ciononostante, è nei momenti di pausa, nelle fasi di attesa verso l'entrata sul campo, che Hernangomez si dimostra capace di tenere testa ad attori professionisti (da Ben Foster a Queen Latifah), lasciando che a fuoriuscire sia l'uomo piuttosto che il campione. Il cestista spagnolo fa proprio il personaggio del padre single Cruz; cerca nel contenitore del proprio passato quella galleria emozionale più adatta per restituire dolori e gioie, vittorie e sbagli dell'essere umano elevato a star del basket. Dal canto suo Adam Sandler si sveste nuovamente del suo essere portavoce di una comicità demenziale, per abbigliarsi di un'introspezione più camaleontica, a metà strada tra il sarcastico e il drammatico. Sulla scia di una sequela di battute caustiche, ma mai fuori luogo, Sandler riprende lo schema costruito per opere come Diamanti Grezzi (qui la nostra recensione) e The Meyerowitz Stories, rendendo verosimile il proprio personaggio. Un uomo colto perennemente all'ombra di grandi edifici e di personaggi sempre più sicuri di lui, sempre più in alto della sua posizione. Non è un caso, pertanto, se ad avvolgere il mondo di Hustle sia una fotografia giocata in sottrazione, prediligendo lingue di ombre per esaltare i momenti di pura luce, quella che illumina il campo da basket in uno stadio, o su un campetto cittadino.
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Corollario di stelle della pallacanestro (da Boban Marjanović ad Aaron Gordon), anche il loro mancato riconoscimento da parte di uno spettatore che fa il suo primo passo verso un mondo a lui sconosciuto, non preclude il completo appagamento di un film che si pone come l'obiettivo non solo l'intrattenere, ma anche far conoscere un universo così dinamico e tutto da (ri)scoprire come quello del basket. Da sport nazionale su suolo americano a scrigno di sogni, incubi, infortuni e rinascite, Hustle è un micro-universo dove la dinamicità dello sport abbraccia lo spettacolo della vita per un mondo abitato da chi non cammina in punta di piedi, ma corre, si scontra, vola con una palla tra le mani; un mondo che non è più teatro, ma campo su cui si gioca la partita della vita.
Conclusioni
Concludiamo questa recensione di Hustle sottolineando come la pellicola con protagonista Adam Sandler si inserisce di diritto tra i film sportivi più riusciti riuscendo a restituire la dinamicità di una partita di basket dipingendola con le sfumature di un'umanità fragile e istintiva.
Perché ci piace
- La performance di Adam Sandler
- La dinamicità del montaggio
- La colonna sonora
Cosa non va
- Il troppo indugiare su sequenze come quelle dell'allenamento rischiando di annoiare
- Il poco spazio dedicato a Queen Latifah