"Se vuoi essere felice, comincia". È una frase di Lev Tolstoj, ed è un po' il simbolo di Hotel Gagarin, il film d'esordio di Simone Spada, una vita da aiuto regista con Caligari, Mainetti, Nunziante, Amendola e molti altri. È una frase che calza a pennello per uno dei più bei film sul cinema, o meglio, sul suo senso profondo, che abbiamo visto negli ultimi anni. Non un'operazione seriosa e intellettuale, ma una commedia. Molto diversa da quelle che siamo abituati a vedere, fatte un po' con lo stampino, quotidianamente sui nostri schermi.
Leggi anche: Cinema italiano: non ancora Veloce come il vento, ma nemmeno più un Perfetto sconosciuto
La grande truffa del cinema
La storia è abbastanza chiara fin dalla prima scena: una sgangherata troupe cinematografica si trova a girare un film sugli ottomani con una centrale nucleare sullo sfondo. Potrebbe andare peggio? Sì, potrebbe arrivare la polizia. E infatti...
Ma partiamo dall'inizio: da fondi europei arriva improvvisamente un finanziamento al film scritto da Nicola (Giuseppe Battiston), che è un professore di storia appassionato di cinema, ma non ha mai girato un film. Il politico che deve erogare il finanziamento chiama allora il sedicente produttore Franco Paradiso (Tommaso Ragno), dicendogli chiaramente di mettere su qualcosa che sembri una troupe per prendere i soldi e scappare: del film non interessa niente a nessuno. Ed ecco in poche ore prendere vita la sporca dozzina. Valeria (Barbora Bobulova), escort russa, farà il direttore di produzione. Elio (Claudio Amendola), elettricista, sarà il tecnico delle luci. Nicola (Luca Argentero), fotografo pieno di debiti, sarà l'operatore. E la protagonista? Patrizia (Silvia D'Amico) è un'attrice presa dalla strada. Ma non nel senso in cui si intendeva nel Neorealismo...
Leggi anche: Claudio Amendola dirige Luca Argentero in Il permesso: "Siamo il bello e il nonno"
Qui si girano i sogni
Arrivati in Armenia, i nostri si sistemano all'Hotel Gagarin. Lo scoppio di un conflitto li costringe a una permanenza forzata all'interno dell'hotel. E allora, chiusi là dentro, i nostri fanno una cosa molto strana al giorno d'oggi: fanno amicizia. E non si fermano qui. La parola crisi, in cinese, ha un doppio significato, vuol dire anche opportunità. I nostri eroi decidono di coglierla, e di fare qualcosa di molto prezioso: aiutare la gente del luogo a realizzare i propri sogni, a essere, grazie alla magia del set, qualcun altro per un giorno. Li accolgono, li ascoltano, e mettono in scena i loro desideri. Da Effetto notte di Truffaut a The Disaster Artist, il cinema sul cinema è qualcosa che da sempre ha il suo fascino. Ma Hotel Gagarin ha il pregio di riuscire a cogliere l'essenza del cinema, che è appunto quella di realizzare dei sogni, dare forma a delle idee, creare mondi, senza operazioni intellettuali e cinefile, ma facendo una cosa molto semplice: raccontando una storia. Una bella storia.
Leggi anche: The Disaster Artist, James Franco: "Tommy Wiseau è l'Orson Welles dei brutti film"
Storie di ordinaria resilienza
Hotel Gagarin non è uno di quei film che colpiscono con scene bomba (tipo Lo chiamavano Jeeg Robot), ma conquista pian piano con l'empatia. È, cosa rara nel nostro cinema recente, un film fatto con garbo. Non è gridato, non è sguaiato, non è volgare. È ottimista. Cosa da non dare per scontato oggi. E ha il pregio, oltre a saper cogliere l'essenza del cinema, di raccontare la storia di una resilienza umana alle difficoltà della vita che, in forma di commedia, è un discorso che il nostro cinema sta dimostrando di saper fare in modo originale (vedi Smetto quando voglio).
Leggi anche: Lo chiamavano Jeeg Robot e la rinascita del cinema di genere italiano
Come girare un film
Simone Spada sa come girare un film. A partire dalla scelta di un cast in cui tutti funzionano e sono perfettamente in parte, per continuare con piccoli tocchi di classe in grado di creare empatia. Come la partita di calcio, che evoca immediatamente il cinema del primo Gabriele Salvatores (quello di Marrakech express e Mediterraneo), alla scelta della canzone vintage in grado di unire tutti, che qui è Samarcanda, 1978, di Roberto Vecchioni. Sa guidare la storia con uno schema perfetto che è fatto dalla sequenza ostacolo/superamento/ricaduta/sorpresa e commozione. E costruisce un film piacevole, da seguire - mi raccomando - anche lungo tutti i titoli di coda. Sembra un film fuori dal tempo, ma non lo è. Per renderlo attuale basta quella frase: "Io resto qui. Non ci torno in Italia"...
Movieplayer.it
3.5/5