Quarant'anni di amicizia si dipanano all'ombra della grande Storia, cadenzati dalle note di Nicola Piovani e cantati a squarciagola da Claudio Baglioni, autore del brano che dà il titolo al film, il dodicesimo di Gabriele Muccino, in sala dal 13 febbraio in ben 500 copie. Probabilmente (come avrete modo di leggere più avanti nella nostra recensione de Gli anni più belli) una summa del viaggio cinematografico compiuto fino a qui dal regista di A casa tutti bene: ventitré anni durante i quali ha avuto modo di raccontarsi ed esprimere una visione del mondo che tutti abbiamo imparato a conoscere, attraverso gli spasmodici slanci dei suoi personaggi e il loro vissuto nervoso.
Storie di generazioni ed epoche che, piacciano o meno, affondano nel nostro Paese. Il cinema, come non esita a dichiarare lui stesso, lo ha salvato e in questo racconto sul tempo non si lascia sfuggire l'occasione di omaggiare quei 'padri' ai quali dice di ispirarsi da sempre, a partire da Ettore Scola: il film è infatti un esplicito tributo a C'eravamo tanto amati di cui Muccino si è assicurato i diritti. Ma se da un lato i modelli illuminati del passato forniranno la spinta necessaria ad esplorare una dimensione drammaturgicamente nuova, dall'altro rappresenteranno anche il forte limite del racconto, vittima dell'impietoso paragone con i suoi fratelli maggiori, nonostante gli sforzi per non farne.
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La trama: un racconto sul tempo che passa
Gli anni più belli raccontati da Gabriele Muccino, che ha scritto la sceneggiatura insieme a Paolo Costella, sono quelli vissuti da Giulio (Pierfrancesco Favino), Gemma (Micaela Ramazzotti), Paolo, (Kim Rossi Stuart), Riccardo (Claudio Santamaria), amici fin da adolescenti. La storia del film copre un arco di circa quarant'anni, dai '70 fino ai nostri giorni, dai sogni giovanili fino alle rotture dell'età adulta. Paolo e Giulio sono appena dei ragazzini quando durante gli scontri di una contestazione studentesca, ultimi fuochi delle rivolte del '68, incrociano il cammino di Riccardo, un giovane coetaneo che sopravvive miracolosamente a un proiettile volante, da cui il soprannome Sopravvissù, che gli rimarrà a vita. Gemma, sedicenne anche lei, si unirà ai tre amici solo successivamente e tra i quattro nasce un'amicizia destinata a confrontarsi per quasi mezzo secolo con le speranze, le illusioni, gli amori, i successi e i fallimenti di ciascuno: sullo sfondo i turbamenti, le crisi e i cambiamenti vissuti dal Paese nel corso di diverse epoche storiche.
Irrompe nel racconto mucciniano un'epica del tempo fino ad ora rimasta inesplorata, è il tempo infatti a scolpire i personaggi del ritratto generazionale che Muccino tenta di mettere a fuoco: quello dei quarantenni e cinquantenni di oggi, costretti ad un ingeneroso confronto con gli impeti rivoluzionari dei propri padri, schiacciati dal peso enorme delle conquiste sessantottine e tragicamente ritardatari su tutto. Sono gli uomini e le donne che una battuta del film definirà "falsi cinquantenni", quelli che non "ci siamo mai presi responsabilità" e che "non si lasciano un cazzo alle spalle": irrisolti, sognatori, ma incapaci di fare meglio dei propri predecessori. Alcuni come Riccardo, aspirante critico nato tra gli ideali libertari di una famiglia di hippies, sono stati semplicemente inchiodati alla mediocrità dalle proprie ambizioni: artisti senza talento, convinti che prima o poi qualcuno si accorgerà di loro.
Altri, come Giulio, avvocato affermato cresciuto nella povertà e con la promessa di una vita migliore di quella dei propri genitori, vivono nella perenne ricerca del riscatto sociale: ce la faranno, ma rimarranno vittima di un implacabile desiderio di riconoscimento. E poi ci sono quelli come Gemma e Paolo, anime sole, poesia pura, l'immagine dell'amore che strugge, si rincorre, si perde e alla fine pacifica. È il filo narrativo forse più interessante e avrebbe meritato una trattazione più ampia e incisiva insieme a quel sapore di amarcord, che inizia a farsi strada solo nell'ultima parte del film idealmente diviso in tre atti.
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I personaggi di un grande affresco popolare
Sullo sfondo si susseguono, ma senza il necessario approfondimento, alcuni degli eventi più significativi di quegli anni, che Muccino relega ad una manciata di immagini fortemente iconiche: la caduta del muro di Berlino, il ribaltone di Mani Pulite, la discesa in campo di Berlusconi, l'attacco alle Torri Gemelle, l'avanzare di una politica del cambiamento che porterà alla nascita del Movimento 5 stelle. Una narrazione vertiginosa e irrequieta a cui non corrisponde in tutta la prima parte un'adeguata profondità emotiva, che solo lo spazio del ricordo riuscirà a recuperare sul finale: struggente in ciascuno dei personaggi in scena, che nella dimensione del malinconico troveranno finalmente una propria identità.
Gli anni più belli corre e si sviluppa come un grande affresco popolare e alla fine si lascia tutto sommato apprezzare, complici le interpretazioni tanto dei giovani attori, che riescono a individuare una propria cifra pur sulle orme delle loro versioni adulte e al servizio di una recitazione urlata e spesso sopra le righe, quanto degli interpreti principali: Kim Rossi Stuart, Claudio Santamaria, Pierfrancesco Favino e Micaela Ramazzotti, capaci di regalare a ciascun personaggio una fragilità straordinariamente umana. La stessa che li farà sorridere, piangere e ricordare che in fondo quello che conta sono "le cose che ci fanno stare bene".
Conclusioni
oncludiamo la recensione de Gli anni più belli con la raccomandazione di evitare, per quanto difficile, qualsiasi tipo di paragone con C'eravamo tanto amati, il film all'ombra del quale è nata questa storia. Lo chiede lo stesso Gabriele Muccino, che ne ha acquistato i diritti ma precisa, solo per farne un omaggio. Nessun remake, sarebbe stato impossibile. Gli anni più belli è una summa del suo viaggio cinematografico fino a qui, è un coacervo di citazioni e rimandi, ma è soprattutto un film sul tempo, oltre che l'affresco di una generazione di cinquantenni, che il regista tenta per la prima volta di mettere a fuoco. Se i primi due atti faticano a trovare una propria direzione, è nell' accorato slancio finale, quello del ricordo, dei bilanci e della consapevolezza del fallimento, che il film trova finalmente la propria compiutezza. E vi commuoverà.
Perché ci piace
- Gabriele Muccino ci regala un affresco popolare, che al netto dei paragoni con i padri che lo hanno ispirato, si lascerà apprezzare dello spettatore.
- L'esplorazione del tempo che passa è una novità per il regista de L'ultimo bacio, ed è proprio nella grazia e nella malinconica dimensione del ricordo che il film acquista potenza.
- Micaela Ramazzotti restituisce l'immagine di un personaggio femminile struggente, rotto, irrisolto e di straordinaria fragilità. A momenti ricorderà la Stefania Sandrelli di C'eravamo tanto amati.
Cosa non va
- Il film idealmente diviso in tre atti, l'adolescenza, l'età adulta e il momento del ricordo, risulterà più debole ed emotivamente poco incisivo per tutta la prima del film.
- La recitazione urlata e sopra le riga a cui sono costretti i giovani attori che interpretano la versione adolescente dei protagonisti.