Se il Festival Internazionale del Cinema Fantastico di Bruxelles (in breve, Bifff) ha un difetto, è da rintracciare paradossalmente nella magnitudo della capienza. Due settimane intere, il Bifff è tra le manifestazioni cinematografiche più lunghe dell'intero pianeta, se non la più lunga. Dal 10 al 25 marzo si è svolta la 24esima edizione: quindici giorni pieni di tutto ciò che il mercato di genere (horror, thriller, fantascienza, fantastico, noir, action) offre al momento e ha offerto nel recente passato. Ora, se lo scope è tale, si deve pur sempre riempire, in qualche modo: cioè, con di tutto e di più, spesso a prescindere dal valore. Eppure l'arma a doppio taglio si trasforma in un vantaggio: perché se è vero che la quantità va spesso a discapito della qualità, è anche fuor di dubbio che la panoramica su un immaginario può dirsi davvero esaustiva, in termini internazionali.
Dunque, l'obiettivo primario del festival è assicurato: far conoscere a tutti -appassionati, cultori, fan sfegatati, curiosi, critici, ricercatori- la situazione attuale di un genere che, con tutte le sue belle divagazioni e diramazioni e contaminazioni, continua a dimostrare tanta linfa vitale che basterebbe da sola a salvare il salvabile. E poi, lo si va sostenendo già da un po', pare che da almeno un quinquennio l'horror stia tornando ad essere veramente ribelle, complesso, stratificato, arrogante, gory, dopo anni di noie pedestri e salamelecchi pedissequi.
Al Bifff 2006 ha stravinto il danese Adams Æbler di Anders Thomas Jensen (Golden Raven per il miglior film, Méliès d'Argent per il miglior film europeo e premio del pubblico Pegasus), ma una giuria in evidente stato di decomposizione ha avuto anche il coraggio di gratificare lo svedese Storm di Mans Mårlind e Bjorn Stein, un blockbuster di inedita bruttezza, e il prezzemolo Fragile di Jaume Balagueró.
Meno male che la bontà stava altrove: nella rielaborazione del mito di Frankenstein che attua il desolato e triste Subject Two dell'americano Philip Chifel, confronto a due soli personaggi tra le montagne innevate; nel rimaneggiamento di materiali notissimi di Isolation dell'irlandese Billy O'Brien, sorta di La cosa in versione "mucca pazza" tutto chiuso in una fattoria; nella povertà intelligente dell'americano The Roost di Ti West, ragazzi attaccati e morsicati da pipistrelli che diventano zombi famelici, con un'umiltà lucida di messinscena che diventa efficacia e suspense; negli inglesi The Dark di John Fawcett (Ginger Snaps) e Wilderness di Michael J. Bassett (Deathwatch), rispettivamente ghost story canonica capace di ribaltare ogni cosa nell'ultima mezz'ora, e con risultati inattesi, e incrocio tra Il signore delle mosche e slasher anni '80 grezzo e sovente tirato via, ma con una forza anche splatter decisamente funzionale; nell'imperfezione appassionante del coreano Antarctic Journal di Yim Pil-sung (alla cui sceneggiatura ha collaborato il Bong Joon-ho di Memories of Murder), dramma psicologico fanta-avventuroso sui ghiacciai che entra nelle mente dei personaggi con effetti devastanti.
Numerose le delusioni, alcune pure sonore, tra cui The Hills Have Eyes di Alexandre Aja, il remake statunitense (e per una major, la Fox Searchlight) di Le colline hanno gli occhi di Wes Craven per mano del regista francese di Alta tensione, che non (re)inventa niente, e The River King dell'inglese Nick Willing (suo il bel Doctor Sleep), sorta di tv movie seduto e piantato.
La sorpresa eclatante? Il breve (72 minuti) Infection di Albert Pyun, da sempre regista pessimo, ma che qui gira un solo piano sequenza in auto in un parco dove si aggirano dei parassiti extraterrestri che si impossessano delle persone. Può sembrare un giochino alla The Blair Witch project - Il mistero della strega di Blair, ma vince su tutti i fronti, è secco e energico, e sì, anche teorico. E fa molta paura.