Quando sul finire del secolo scorso Darren Aronofsky offrì ad Ellen Burstyn il ruolo di Sara Goldfarb, uno dei personaggi di Requiem for a Dream, il libro scritto nel 1978 da Hubert Selby jr. che il giovane regista di Brooklyn si apprestava a trasformare in un film, l'attrice di Detroit, nota soprattutto per la sua interpretazione ne L'esorcista, rifiutò immediatamente la parte, profondamente turbata dopo aver letto la sceneggiatura, adattata per il grande schermo da Aronofsky con la collaborazione dello stesso Selby, autore di culto della letteratura americana del Novecento, genio assoluto del nostro tempo, uomo dallo sguardo azzurro e dolce, stroncato nell'aprile del 2004 da una malattia, la tisi, che l'ha accompagnato per tutta la vita. Cantore di una generazione di disperati della Brooklyn degli anni sessanta che, disorientata dalla solitudine, cerca la salvezza nel sesso, nella droga, nel miraggio televisivo, senza riuscire mai a trovare un fascio di luce sotto il quale bagnarsi, Selby ha scatenato coi suoi racconti le ire dei benpensanti americani che hanno richiesto a gran voce l'intervento della censura per mettere a tacere quella voce perversa che descriveva in dettaglio il marcio della società americana. Anche nel nostro paese l'uscita del suo primo, straordinario romanzo, Ultima fermata a Brooklyn, pubblicato nel 1964 da Feltrinelli, fa scoppiare le polemiche: il Procuratore della Repubblica di Milano ordina il sequestro di quella che viene definita un'opera nella quale "non traspare nessun pregio artistico" poiché in essa "sono narrati con prosa scurrile e volgare, accoppiamenti sessuali anche fra invertiti, scene di sadismo, di masochismo, ed altre aberrazioni sessuali con particolari disgustosi, ripugnanti e tali da offendere in modo gravissimo il sentimento del pudore e che attingono al più alto grado di oscenità". La risposta dello scrittore americano non tarda ad arrivare ed ha la forma di una lettera spedita all'editore milanese nella quale afferma: "Quel che cerco di dire nel mio libro è che senza amore il mondo diventa un luogo malvagio e pieno di odio. (...) In esso ci sono scene di violenza, sesso ecc. perché violenza, sesso ecc. sono parte integrante della vita. E' quando manca l'amore che le bilanci che si perde totalmente il controllo e l'uomo diventa peggio di un animale. L'animale non ha l'intelletto o la moralità che lo guidi. Io sto tentando di mostrare non solo com'è fatto il mondo ma, in una certa misura, perché è fatto così. Senza amore restano solo odio e distruzione." Feltrinelli difende con grande intelligenza il libro che, otto anni dopo, caduta la censura, può finalmente tornare sugli scaffali.
La prosa di Selby è un fiume in piena, che si fa beffe della punteggiatura perché le parole escano dallo stomaco e arrivino su carta senza ostacoli, senza compromessi. L'universo delle sue opere è popolato di prostitute, drogati, alcolizzati, travestiti, esseri umani ai margini, sconfitti troppo presto dalla realtà, incapaci di reagire, capri espiatori di una società malata che abbandona gli individui alle proprie fragilità e non fornisce vie d'uscita, ma solo chimere che conducono in tunnel irti di trappole. Non c'è speranza nelle sue storie, anche i sentimenti più nobili, come l'amore, sono destinati a bruciare nel falò delle fragili speranze ed il destino agghiacciante che egli riserva ai suoi antieroi non lascia spazio ad una liberazione finale del lettore, travolto dal vomito della vita. Il successo per Hubert Selby Jr. arriva con i racconti che compongono Ultima fermata a Brooklyn, capolavoro riconosciuto, la bibbia della sua poesia sboccata che fonde sesso e dolore immortalando la miserabile condizione dell'essere umano in un mondo disumanizzato, un violento pugno nello stomaco destinato ad ispirare musicisti, infiammare i poeti della beat generation e influenzare scrittori in erba. Nel 1989, Uli Edel, il regista tedesco di Christane F. - Noi i ragazzi dello zoo di Berlino, ne trae un film con le musiche di Mark Knofler e la presenza tra gli interpreti di Jennifer Jason Leigh e di un giovanissimo Sam Rockwell. Il film, pur avendo un suo valore intrinseco, mostra delle evidenti pecche proprie sul piano dell'adattamento, affidato a Desmond Nakano, che non riesce a cogliere a pieno l'atmosfera malata del libro, la brutalità delle sue pagine, la sua prospettiva misantropica, e soprattutto, non restituisce i personaggi nella loro profondità, cosa che invece saprà fare splendidamente Aronofsky nella sua trasposizione cinematografica di Requiem for a Dream.
Caratterizzato da uno stile fortemente cinematografico, Requiem for a Dream viene pubblicato per la prima volta nel 1978. In Italia si dovranno attendere venticinque anni prima di poterlo leggere, distribuito dalla Fazi Editore, un ritardo imperdonabile, ma che non scalfisce la forza devastante ed assoluta di un romanzo che sembra già in origine una formidabile sceneggiatura, pieno com'è di suggestioni e brividi visionari, come se la sua traduzione in immagini fosse un passaggio naturale ed anzi obbligato. Requiem for a dream è la straziante marcia funebre in tre stagioni che accompagna la bara dei sogni di quattro boccheggianti esseri umani nel cimitero delle illusioni di cristallo, sullo stesso terreno metropolitano di Ultima fermata a Brooklyn, e che saluta con un soffio d'alito pesante i suoi protagonisti stremati nelle braccia dell'Inferno. Due i nuclei narrativi: da un lato, mamma Sara, una donna ormai anziana che dopo la scomparsa del suo adorato marito Seymour si è ritrovata completamente sola, ora che suo figlio Harry (un nome che ritorna in tutta la bibliografia di Selby) viene a trovarla solo per rubarle il televisore; dall'altro lato, un giovane terzetto di drogati, Harry, la sua ragazza Marion e Tyrone, l'amico fidato. Ognuno di loro ha un sogno. Sara vuole andare in televisione, sfoggiando il vestito rosso della sua giovinezza, ma per entrare in quel maledetto abito deve dire addio ai suoi amati dolci e mettersi a dieta, aiutata dalle magiche pilloline che la aiutino a perdere peso. Harry e Tyrone sognano di cambiare vita, di lasciare Coney Island per cercare la felicità da un'altra parte, e con loro Marion, aspirante stilista, che vorrebbe aprire un negozio di abiti. Per loro il presente non esiste, è solo una stazione di passaggio, proiettati come sono in un futuro dal volto felice, al quale vorrebbero arrivare attraverso delle scorciatoie, inconsapevoli che i binari del loro destino stanno per condurli nella più totale disperazione. Un quartetto, quindi, di anime infelici, incapaci di rapportarsi alla realtà e di stabilire con chi gli sta accanto un contatto sincero, perché votati tutti all'inganno del dopo che dissemina di buche le loro esistenze e che li impegna in una sciagurata ricerca di qualcosa che riempia quelle voragini. Un racconto sulla dipendenza, non solo dalla droga, ma dalla televisione, dal caffè, dagli zuccheri, dalle pillole dimagranti, e più in generale dalla speranza, che porta i suoi protagonisti, nel breve tempo di tre stagioni, all'autodistruzione.
E' il 1987. Darren Aronofsky si è appena iscritto ad Harvard per studiare cinema quando, girando in una libreria, gli capita tra le mani Ultima fermata a Brooklyn. Incuriosito dal titolo, Aronofsky, che è nato e cresciuto proprio a Brooklyn, decide di comprare quel libro di cui non ha mai sentito parlare e che è destinato a cambiargli la vita. L'aspirante regista newyorchese non riesce a credere che qualcuno possa, attraverso la scrittura, entrare così a fondo nella mente di un essere umano, e riportarne la sua essenza con uno stile ed un'energia che non ha eguali nella letteratura americana. E se questo libro contribuisce a cambiarlo, è Requiem for a dream a dare una svolta importante alla sua carriera, lanciandolo nell'olimpo dei più talentuosi registi di nuova generazione. Il rapporto tra Aronofsky e l'ultimo romanzo di Selby comincia però in maniera burrascosa: la brutalità delle sue pagine e la disturbante spirale di devastazione nella quale scivolano i protagonisti sconvolgono il giovane regista che non riesce a portare a termine la lettura. Intanto, dopo la laurea ad Harvard ed una serie di corti, uno dei quali, Fortune Cookie, basato su una storia breve di Selby, Aronofsky gira il suo primo lungometraggio, Pi - Il teorema del delirio, un film-incubo, l'odissea matefisica di un genio solitario, secondo il quale "la natura parla attraverso la matematica" e "tutto ciò che ci circonda si può rappresentare e comprendere attraverso i numeri", che cerca di arrivare a Dio proprio attraverso i numeri. Fotografato in un bianco e nero fortemente sgranato, Pi è un film low budget che ha in embrione l'idea di cinema di Aronofsky, abbondante di tutte quelle invenzioni visive che saranno poi sviluppate al meglio in Requiem for a dream. Sarà proprio il produttore di Pi, Eric Watson, a consigliargli di finire il libro e a suggerirgli l'idea di farne un film. Ed è dopo aver visto Pi che la Burstyn cambia idea, accettando il difficile ruolo di Sara, che onora con la sua più intensa e sofferta interpretazione, coronata con un Golden Globe e la nomination al premio Oscar.
La versione cinematografica di Requiem for a Dream esce nel 2000, ma nelle sale italiane non sarà mai distribuita. Nell'era di internet, però, basta un rapido passaparola perché il film arrivi, grazie alle straordinarie risorse della rete, anche laddove non ha trovato distribuzione e il successo assume contorni planetari. Lo stile del film di Aronofsky è rivoluzionario e la fedeltà al romanzo di Hubert Selby jr. altissima. A garantirla la presenza dello stesso scrittore come co-sceneggiatore. Aronofsky non sottrae (quasi) niente alla vicenda, ma anzi aggiunge qualche elemento per rendere più personale il racconto. Così, quella che guarda Sara nel libro è una televisione generica da esplorare facendo zapping, mentre nel film lo stardom nel quale si immagina di fare il suo trionfale ingresso ha il suo tempio nello show di Tappy Tibbons, un personaggio creato appositamente dal regista, che coi suoi ammiccamenti e il suo appeal acquista nella pellicola il ruolo centrale di imbonitore del sogno. La televisione rappresenta per Sara l'unica possibilità di sentirsi viva e sarà proprio la televisione, attraverso la fantomatica opportunità che le viene data di prendere parte allo show, a regalarle l'ultima illusione di una vita che sta correndo, nella desolazione, verso la fine. Ecco perché tiene l'apparecchio legato con la catena al termosifone: perché nessuno le rubi la sua ultima speranza, quella grazie alla quale potrà accomiatarsi dalla vita col sorriso sul volto. A portarglielo via, nel prologo del film, è suo figlio Harry, un tossicodipendente che vuole impegnare il televisore per raggranellare i soldi per una dose di eroina. Fin dalle prime battute, Aronofsky rende evidente il suo obiettivo: far esperire allo spettatore la soggettività dei protagonisti. Per riuscire nel suo intento utilizza lo split screen, soluzione che gli permette di presentare entrambi i punti di vista, entrambi gli stati d'animo, in questo caso il panico e la rabbia. Requiem for a Dream è un film importante, perché ridefinisce la traiettoria dello sguardo dello spettatore e lavora, esplicitando tutti gli artifici della messa in scena, sulla sua percezione per far sì che chi guarda entri direttamente dentro la testa dei personaggi.
Fin dal prologo il regista ci avverte che quello a cui stiamo per assistere è un film che non contempla la speranza: ce lo dicono le immagini di una donna che si nasconde terrorizzata dal suo stesso figlio, ce lo dice la musica, quel triste requiem che farà da sottofondo a tutta la pellicola, e ce lo dice il titolo, che come una ghigliottina arriva a sgozzare l'ottimismo di Sara, la quale, chiusa nell'oscurità dello sgabuzzino, si ripete che alla fine tutto si aggiusterà. Il film è ambientato a Coney Island, il lungomare di Brooklyn dove, parole di Selby, "la città termina la propria insularità ed incontra l'oceano". Aronofsky ci mostra fin dai titoli di testa questo sterile paesaggio suburbano, con il mare che lo bagna e il luna park sullo sfondo, nel lungo viaggio a piedi che Harry e il suo amico Tyrone fanno per andare a vendere il televisore. E' estate. A Sara è bastato la sola possibilità di apparire in televisione per farle guadagnare un posto al sole, quello centrale, tra le vicine di casa che si abbronzano in strada. E' la stagione dell'abbondanza, quella in cui l'eroina non manca mai a riempire le giornate di Harry e Tyrone, e a rendere l'oasi del rapporto tra Harry e la sua ragazza, Marion, ancora più felice. Aronofsky, per visualizzare l'effetto della droga sui suoi protagonisti, si serve del cosiddetto montaggio hip-hop, utilizzato in modo ripetitivo per catturare la natura ossessiva della dipendenza, una tecnica già vista nel precedente Pi, che consiste in una raffica velocissima di dettagli accompagnati da suoni scelti ad hoc, utilizzati per enfatizzare le immagini e far entrare lo spettatore ancora più a fondo nell'esperienza soggettiva del personaggio.
Il film esplicita la struttura in tre atti del libro. Il racconto, infatti, si sviluppa nell'arco di tre stagioni: l'estate, la stagione della speranza; l'autunno, la stagione in cui il sogno comincia a scricchiolare; l'inverno, la stagione dell'incubo. Non esiste primavera per questi esseri umani frantumati nell'oblio, che inciampano in loro stessi, non esiste, sollievo, rassicurazione, rinascita. Difficile tradurre in immagini la visceralità della prosa di Selby. Aronofsky ci riesce attraverso degli artifici tecnici. Lo spettatore è trascinato nella tensione drammatica della pellicola non soltanto per quello che vede sullo schermo, ma per come lo vede. Sono innumerevoli le invenzioni visive, le tecniche utilizzate, le mirabilie stilistiche del film, che fanno storcere il naso ai puristi del cinema e che entusiasmano i giovani, che elevano Requiem for a Dream allo status di cult. Lo stile di Aronofsky non è fine a sé stesso, ma ha una precisa volontà di significazione. Egli saccheggia tutta la tecnologia disponibile per rendere il film completamente soggettivo. In questo senso va spiegato l'utilizzo della Snorri-cam, una macchina da presa legata al corpo dell'attore che lo congela al centro dell'inquadratura. La percezione non è quella normale dell'attore che si muove nello spazio, ma dello spazio che si muove attorno a lui, una trovata forse un po' artificiosa, ma che rende alla perfezione l'orrore nauseante dei personaggi, quando li riprende in fuga da un mostro invisibile.
Come aveva già fatto in Pi, Aronofsky decide anche in questa occasione di manipolare i colori, eliminando completamente il rosso, eccezion fatta per i capelli di Sara e per il suo vestito, colore simbolo del suo sogno e della sua giovinezza lontana. Grande attenzione è poi riservata all'illuminazione, che passa da quella naturale e calda della stagione estiva, a quella artificiale dell'inverno. La cura di ogni dettaglio è maniacale, ogni sequenza è manipolata digitalmente per ottenere un determinato effetto. Aronofsky non si fa mancare niente: compra i diritti di un thriller d'animazione giapponese, Perfect Blue, per copiarne un'unica sequenza, quella in cui Marion urla con la testa immersa nell'acqua della vasca da bagno, e gira trenta minuti ininterrotti di pellicola nell'appartamento di Sara che poi comprime in venticinque secondi di scena accelerata per mostrare l'effetto che le pillole hanno su di lei. Requiem for a Dream non è soltanto il prodotto di due straordinarie menti, quella di Selby e quella di Aronofsky, ma è un film collettivo, nel quale l'apporto di ogni reparto si configura come fondamentale per la sua riuscita. E' il caso, per esempio, delle musiche di Clint Mansell, alla sua seconda colonna sonora, dopo quella di Pi, che qui scrive una straziante messa, combinando l'elettronica con gli archi del Kronos Quartet, che partecipa interamente alla significazione. Un lavoro di squadra che trova nel montaggio, curato da Ray Rabinowitz, l'elemento caratterizzante di tutto il film, senza dimenticare però la suggestiva fotografia di Matthew Libatique.
Altro elemento che contribuisce alla grandezza del film le indimenticabile performance degli attori. Innanzitutto, Ellen Burstyn, che interpreta il complesso ruolo di Sara, sicuramente il personaggio più interessante di Requiem for a Deam. La Burstyn deve passare ogni giorno attraverso quattro ore di trucco per indossare le protesi che diano l'idea del suo crollo fisico, mentre ad assicurare quello mentale ci pensa la stessa attrice con un'interpretazione che è un vero capolavoro nel capolavoro, brava com'è nel far riflettere sul suo volto il rincorrersi dei sentimenti che gli esplodono dentro. Due scene su tutte: quella in cui Sara, ormai dipendente dalle amfetamine, parla in cucina con suo figlio Harry e quella in pieno delirio alla stazione televisiva. Degne di nota anche le prove dei giovani e bellissimi Jennifer Connelly (Marion), Jared Leto (Harry) e Marlon Wayans (Tyrone), attore icona della più recente commedia demenziale americana. Film post-postmoderno, importante per capire meglio la nostra società, e quella americana in particolare, come importante fu, negli anni settanta, Arancia mccanica, magnifico affresco pop-art partorito dal genio di Stanley Kubric, Requiem for a Deam è già diventato fonte d'ispirazione per molti giovani registi, ed in particolare per lo svedese Jonas Akerlund, famoso regista di videoclip che con il suo primo lungometraggio, Spun, sfiora il plagio, ma non va oltre il freddo esercizio di stile, confezionando un'opera dal bellissimo involucro, ma vuota nel contenuto.
Requiem for a Deam è un film sull'ossessione della dipendenza, sulle conseguenze malate dei sogni, sul dramma della solitudine e delle difficoltà di comunicazione. Aronofsky riesce a cogliere l'essenza di un libro che ha in sé tutto l'orrore della società contemporanea e il suo modo di metterlo in scena non può che far gridare al miracolo. La costruzione del climax è sublime. La tensione che accompagna l'intera durata del film è un crescendo che esplode nel finale: gli ultimi quindici minuti sono così serrati e disturbanti da trasformare Requiem for a dream in un film horror. Difficile per lo spettatore, che ha seguito l'intera parabola discendente dei protagonisti, sopportare la violenza con la quale i loro corpi vengono sbattuti all'inferno. Nessuno spiraglio di luce nell'elettroshock che viene fatto a Sara, nessun abbraccio per Harry e il suo corpo mutilato, nessun bacio materno a sollevare Tyrone dopo una massacrante giornata di lavoro in carcere, nessun amore nel sesso che scuoia Marion. Il sogno è finito, i protagonisti distrutti, lo spettatore sconvolto. Il gelo che scende a coprire i corpi dei quattro personaggi in posizione fetale sui rispettivi letti ghiaccia il cuore e resta per sempre negli occhi di chi ha saputo lasciarsi squartare da Requiem for a Deam.