Empire of Light, il nuovo film di Sam Mendes, è una storia che trasuda passione per il cinema, un film carico di ricordi, di nostalgie, di magia e di sogni di celluloide. È un film che arriva a poca distanza (è nelle nostre sale dal 2 marzo) da un altro film che ha un tema simile, The Fabelmans di Steven Spielberg, e a un anno, o poco più, da due altri film che, parlando di cinema, hanno caratterizzato la scorsa stagione, Belfast ed È stata la mano di Dio. Tutti film che, in particolare The Fabelmans, hanno messo d'accordo tutti. Empire of Light, che ha un tono molto particolare, ha invece diviso. E ha lasciato molto tiepidi i membri dell'Academy: solo una nomination agli Oscar, quella per la miglior fotografia, a un mostro sacro come Roger Deakins. Forse il film di Sam Mendes avrebbe meritato qualche candidatura in più. Ma quello che è sicuro che la nomination a Deakins è meritatissima. Il suo lavoro sulla fotografia di un film che, sin dal titolo, fa della luce il suo fulcro, è straordinario.
Quello di Empire of Light è un paesaggio stato d'animo
Un famoso scrittore inglese, Jonathan Coe, nel suo libro La banda dei brocchi, scriveva che in Inghilterra, negli anni Settanta, tutto era piattamente marrone. In Empire of Light all'inizio della storia siamo nel 1981 ma, essendo una cittadina di provincia sul mare, tutto sembra essere rimasto agli anni Settanta, se non addirittura prima. Roger Deakins è straordinario nel ricreare, soprattutto negli esterni giorno, e anche in certi interni, una certa monocromia, una palette di colori tenui, sui toni del marrone. Quello di Empire of Light è un paesaggio stato d'animo, che, grazie ai colori spenti, evoca un modo di essere. La noia, la monotonia, la banalità della vita di provincia. La depressione, il male di vivere, della protagonista, Hilary, interpretata da una grande Olivia Colman.
Empire of Light, la recensione: Sam Mendes e un (tenero) film che insegue la luce
Sembra di essere in quadro di Edward Hopper
Ma quel marrone, quel colore uniforme è solo lo sfondo, la tela su cui poi il Maestro Roger Deakins dipinge con pennellate di colore forti. Il critico cinematografico Michele Anselmi, con un'espressione perfetta, definisce Empire of Light "smaltato dalla fotografia di Roger Deakins". È perfetta perché Deakins su quella tela imprime dei colori carichi, densi, pastosi, a volte più caldi, a volte più freddi. Quando vediamo quegli esterni, di notte, accendersi di luci al neon, ci sembra di essere in quadro di Edward Hopper, in una di quelle opere come The Nighthawks (I falchi della notte). Ci sono dei rossi, dei bianchi, dei gialli accesi. Su tutte, spicca l'insegna del cinema Empire, scritta in stampatello, con le lettere montate in verticale, una luce gialla intensa e decisa. Deakins riesce a prendere i neon rosati della Roller Disco, quel misto tra discoteca e pista di pattinaggio che si usava negli anni Ottanta, e a renderli poesia. È come se queste insegne dettassero un messaggio. A spezzare la monotonia di una cittadina di provincia, anche ignorante e razzista (come vedremo), a illuminare le vite di chi ci abita ci sono la cultura, il cinema, l'intrattenimento. A proposito di The Nighthawks, le atmosfere di quel quadro le ritroviamo anche in quel diner/sala da ballo ormai abbandonato che sarebbe il terzo piano del cinema Empire.
Vivere la magia del cinema senza far vedere lo schermo
Ma c'è un altro quadro di Edward Hopper che ritroviamo in Empire of Light. È New York Movie, un quadro che mostra l'interno di una sala cinematografica. E nei rari momenti in cui, dagli altri locali del cinema, entriamo nella sala vera e propria, ecco quei velluti rossi, quelle architetture Art Deco, quel buio in sala illuminato qua e là da poche luci fioche. Quel quadro, curiosamente, mostra arredi, drappeggi, particolari architettonici. Lo schermo è solo in una piccola porzione della figura, in alto a sinistra, un colore grigio che evoca un film in bianco e nero. Non vediamo che film si stia vedendo in quella sala, ma sappiamo che lì c'è un grande schermo e la potenza del cinema la sentiamo, ci arriva tutta, perché sappiamo l'esperienza che sta vivendo chi è in quella sala. È singolare che Sam Mendes, in Empire of Light, faccia proprio questo. Che ci faccia vivere la magia del cinema, sentire l'emozione di chi va in sala, e chi in quel cinema lavora, senza mai far vedere lo schermo, senza mai far passare un fotogramma. Se non alla fine.
Roger Deakins: un premio alla carriera per il direttore della fotografia di Empire of Light e Fargo
Roger Deakins prende il cielo e gli dà fuoco
Accanto ai colori forti, Roger Deakins dipinge anche tinte pastello, i colori più tenui di una giornata al Luna Park, alla luce del sole. E poi di notte, ancora una volta prende il cielo e gli dà fuoco, come faceva nel finale di Skyfall (il film di James Bond con la regia di Sam Mendes). Stavolta il cielo è nero, ma Deakins lo accende di fuochi d'artificio, ancora una volta un paesaggio stato d'animo, perché nel cuore dei protagonisti c'è un tumulto. O ancora, prende quello sfondo del cielo scuro sul lungomare, e con le luci dei lampioni che corrono lungo la riva crea delle pennellate gialle che, sfumate sullo sfondo, sembrano quelle di un quadro astratto.
Il cinema, l'impero della luce
Un film come Empire of Light è il regno di Roger Deakins. Il titolo fa riferimento al nome del cinema, certo. Ma è chiaramente un gioco di parole per definire il cinema, "l'impero della luce". Che poi è una definizione che sarebbe perfetta anche come titolo di una rassegna su Roger Deakins, un direttore della fotografia che, come tale, fa della luce il suo lavoro, e lo fa magnificamente da anni. Il Maestro qui è nel suo mondo, perché Empire of Light è anche una profonda riflessione sul cinema come magia di luce. "Non voglio che lo sappia", dice il proiezionista a proposito degli enormi proiettori che stanno nella sua cabina. "Il pubblico deve solo vedere un fascio di luce". Ed è vero. Senza vedere da dove viene, vedendo solo quel filo di luce dove pullula il pulviscolo, pare che il cinema non arrivi da qualcosa di concreto, ma che sia un insieme di particelle arrivate da chi sa dove, che in quella strada di luce prendono forma e si trasformano in immagine una volta arrivate sullo schermo. "Sono solo fotogrammi statici con in mezzo il buio" spiega l'uomo (un grande Toby Jones). "Ma a 24 fotogrammi al secondo non percepiamo il buio". Come diceva quella canzone, è una specie di magia. La magia del cinema, la magia della luce. E Roger Deakins, più che mai, oggi è l'imperatore di quella luce.
Era mio padre, 20 anni dopo: Quando Sam Mendes girò il suo "Padrino"