Steven Spielberg, Paolo Sorrentino, Damien Chazelle, James Gray, Alejandro González Iñárritu e, appunto, Sam Mendes. Saranno i tempi nerissimi, eppure, ultimamente, sono tanti gli autori che cercano rifugio nel cinema, mettendo in scena la loro memoria che, per magia, diventa memoria condivisa di una platea in cerca di emozioni. Un cinema personale, privato, intimo. Il frutto dei loro ricordi più dolci, delle ossessioni più indicibili. La culla, la certezza, la speranza che si accende in un flusso di luce, proiettato nel perimetro bianco di uno sogno che sfugge. Per necessaria brevità, la recensione di Empire of Light sarebbe dovuta essere suddivisa in due parti distinte, dovendo approfondire le sue due correlate realtà: da una parte l'oggettività di opinione, dall'altra la soggettività dirompente che, appunto, ha voluto dipingere Sam Mendes nel suo nono lungometraggio. Il regista britannico, premio Oscar per uno dei più grandi film di inizio Millennio (American Beauty), concepisce così il suo film maggiormente sentito, e scaturito da una sorta di vitale bisogno: tornare dove tutto è cominciato, fare i conti con il passato, provare a capirlo e, in qualche modo, a perdonarlo.
Tutto nobile, tutto bellissimo. Ma, come detto, la ricerca della luce è solo una parte - se pur la più importante - di Empire of Light (titolo emblematico, potremmo dire) e dunque non si può non ammettere un dolce narcisismo sovrabbondante che, a più riprese, fa sensibilmente vacillare la struttura che scricchiola sotto il peso di una ridondanza non richiesta. Ma attenzione, il sovradosaggio emozionale di Sam Mendes è dettato (e si vede) da una sua forte spinta personale, che dunque squilibra la corrente che mette in contatto il cervello e il cuore. Benché non sia un'opera autobiografica. Uno sbilanciamento emotivo, che di conseguenza sbilancia il film. Empire of Light ben presto, inizierà a battere strade diverse e parallele: il cinema, la sanità mentale, la crepa politica e sociale che artigliava la Gran Bretagna del 1981. Pertanto, andrebbe inteso per ciò che è: un sincero flusso di coscienza cinematografica, che si concretizza in un film dolcissimo e tecnicamente meticoloso nella sua irresistibile ingenuità caratteriale.
"È materiale prezioso"
Se l'ingenuità è comprensibile quando si parla di cuore ed emozioni, va anche rimarcato quanto Empire of Light sia un film che, nonostante tutto, non smette di cercare la bellezza. Che vuol dire? Nella Margate di inizio Anni Ottanta, la bellezza era contenuta nel giro meccanico di due bobine cinematografiche. "È materiale prezioso", dice Norman (Toby Jones), il proiezionista del multisala Empire, a proposito delle pellicole appena scaricate dal fattorino. Il cinema Empire è lo sfondo, diventando via via protagonista assoluto. Fuori, la recessione imperversa e Margaret Thatcher invoca l'austerity. Come se non bastasse, il razzismo dilaga e le Dr. Martens sono ancora il simbolo degli skinhead.
Nello specifico, il film ha per protagonista Hilary (Olivia Colman, splendida), infelice e mite vice-direttrice del cinema, con una salute mentale stressata da un esaurimento nervoso e implicitamente ed esplicitamente soggiogata dal borioso direttore Mr. Ellis (Colin Firth). Ad accendere le sue giornate bianche, come è bianco il cielo del Kent (e bianche come lo schermo che si accenderà di colori), l'arrivo di un nuovo addetto, Stephen (Micheal Ward), un ragazzo afro che, immediatamente, si legherà con la donna. L'infelicità di Hilary, poco a poco, muterà forma in qualcosa di diverso, di sconosciuto, di atteso.
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La potenza salvifica delle immagini
Innegabile che tra i molti spunti offerti da Empire of Light ci sia quello relativo all'arte come irrinunciabile salvezza, su cui fare affidamento per evadere da "una realtà scadente". Ma per la Hilary di Olivia Colman, la sala cinematografica, scoprirà, non è solo finzione, né solo celluloide. Per lei, precisa e arruffata, meticolosa e affranta, potrebbe essere un nuovo punto di partenza, instaurando consapevolezze a lungo sopite. Certo, la voglia smodata di Sam Mendes nel delineare la sentimentale conflittualità ha fatto sì che la narrazione venisse fin troppo caricata, sbandando ad ogni cambio di registro (la condizione di Hilary, la società britannica conservatrice, il razzismo, la realizzazione femminile), tanto che i passaggi di tono sono marcati e inutilmente sottolineati. Del resto, quando la luce brilla forte non è difficile individuare i granelli di polvere. Tuttavia, il percorso di Empire of Light rimane coerente e, per quanto possibile, coinvolgente.
Il perché assoluto è rintracciabile nell'atmosfera nostalgica e malinconica, filtrata in modo eccellente dal candidato all'Oscar Roger Deakins, capace di far brillare la scenografia di Mark Tildesley, che ha creato il cinema Empire direttamente dalla silhouette del cinema Dreamland di Margate, sulla costa del Kent. Un luogo speciale, scelto dal regista per due motivi: molti panorami pittorici di William Turner sono nati lì, e poi perché T.S. Elliot scrisse La terra desolata seduto davanti al cinema appena costruito nel 1922.
Sam Mendes, infatti, ci porta e ci riporta in un'epoca lontana, di quando l'odore del cinema era intriso di pop-corn e di moquette ammuffita; di quando la pellicola girava lassù, vorticosamente, in una cabina che, oggi, non esiste più. La ricostruzione di un universo ormai perduto, di contraltare al profilo di una donna e di un ragazzo che hanno intrapreso lo stesso percorso - lo Stephen di Micheal Ward è, a tutti gli effetti, il protagonista maschile -, accettandosi e accettando le loro innumerevoli storture. Come la pellicola avvolta in una bobina, che inizia e poi finisce, Empire of Light di Sam Mendes è un film sulle seconde possibilità. Sulla rinascita. Sui secondi tempi. Sulla potenza catartica delle immagini. Una cartolina spazio-temporale, che suona prima Joni Mitchell e poi Bob Dylan (sì, troverete una grande soundtrack), ricordandoci amorevolmente quanto "la vita sia uno stato mentale".
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Conclusioni
Concludendo la recensione di Empire of Light torniamo a porre l'accento sulle intenzioni di Sam Mendes: ri-creare un mondo lontano, intriso di nostalgia e malinconia, soffermandosi sulle difficoltà di una donna e di un ragazzo (nero) nell'Inghilterra degli Anni Ottanta. In mezzo, l'ode al cinema e al suo potere curativo, emblema di bellezza e rinascita. Non tutto funziona, spesso i toni si accavallano e risultano ridondanti, ma il senso è nobile e, a suo modo, trascinante.
Perché ci piace
- Olivia Colman.
- La fotografia.
- La malinconia, e la nostalgia.
- L'universo ri-creato da Sam Mendes, sfruttando a pieno la scenografia.
Cosa non va
- I passaggi di tono e di situazione, poco coerenti.
- Una certa ridondanza.
- L'effetto tenerezza alcune volte perde la rotta.