L'inverno 2015 negli Stati Uniti, dal punto di vista della cultura popolare, sarà ricordato probabilmente per il successo travolgente di American Sniper, per i blandi brividi erotici di Cinquanta sfumature di grigio (o magari il brutto film tratto dal pessimo libro ononimo è già pronto per il dimenticatoio?) e per la febbre collettiva che ha incollato milioni di spettatori di fronte agli intrighi familiari della dinastia dei Lyon, portando lauti guadagni nelle casse della Fox.
Inutile girarci intorno: volenti o nolenti, Empire (titolo altisonante che è già tutto un programma) è la serie di cui tutti o quasi, in America, hanno parlato per mesi (ma che soprattutto quasi tutti hanno guardato); la serie che, a dispetto della tendenza discendente della maggior parte degli show televisivi, ha debuttato il 7 gennaio con dieci milioni di spettatori e ha fatto calare il sipario, il 18 marzo, con diciassette milioni e mezzo di fan adoranti (ventitre milioni, contando anche i numeri del DVR); la serie la cui soundtrack, messa in vendita il 10 marzo, è schizzata subito al numero uno della prestigiosa classifica Billboard, soffiando a sorpresa il primo posto all'ultimo album di Madonna.
L'impero colpisce ancora: il finale di stagione
Prima di approfondire le ragioni di un successo tanto travolgente, in parte prevedibile ma solo in piccola parte meritato, vale la pena spendere qualche parola sulla saga familiare che, per la Fox, si è trasformata in un'autentica gallina dalle uova d'oro. Empire, innanzitutto, è il frutto della collaborazione fra Lee Daniels, regista 'esploso' nel 2009 con Precious (sopravvalutato cult in America, benedetto anche dai membri dell'Academy) e campione d'incassi nell'estate 2013 con il dramma storico The Butler - Un maggiordomo alla Casa Bianca, e Danny Strong, sceneggiatore del succitato The Butler, degli ultimi episodi di Hunger Games, ma anche di un paio di ottimi TV movie a sfondo politico per la HBO (Recount e Game Change). Al centro della serie troviamo il clan dei Lyon, dominato con pugno di ferro da Lucious Lyon (Terrence Howard), superstar dell'hip pop e proprietario di un'etichetta musicale denominata Empire, legato da un rapporto di amore/odio alla sua ex moglie Cookie (Taraji P. Henson), co-fondatrice della Empire Entertainment, uscita dal carcere dopo diciassette anni di detenzione per traffico di droga. Un ménage che nel corso della serie ci ha regalato più di una scintilla, e che nel finale di stagione, Who I Am (diretto dalla Debbie Allen di Saranno famosi), sfocia in una guerra aperta fra i due ex coniugi.
Una guerra in cui i tre figli della coppia, ancora una volta, si suddividono in opposte fazioni per contendersi lo scettro dell'impero, con repentini cambiamenti di fronte che seguono più le regole del colpo di scena a tutti i costi che non quelle della logica: e così Andre (Trai Byers), psichicamente instabile, e l'arrogante Hakeem (Bryshere Gray), giovane gangsta rapper in ascesa, decidono di entrare in combutta con la subdola Cookie e con l'ex fidanzata di Lucious, Anika (Grace Gealey), allo scopo di detronizzare l'odiatissimo patriarca, colpevole di atteggiamenti autoritari e oppressivi che hanno finito per inimicargli tutte le persone accanto a lui. Nel frattempo Lucious proclama come proprio erede designato il talentuoso Jamal (Jussie Smollett), ex "pecora nera" disprezzata dal padre per la sua omosessualità, salvo poi essere prediletto a scapito dei fratelli. Le ultime sequenze del finale di stagione ci mostrano Jamal, il più maturo e responsabile del clan dei Lyon, pronto a reagire ai pregiudizi omofobi dell'universo del rap e a prendere in mano le redini di Empire. Ma dalla prigione in cui è appena stato rinchiuso, Lucious ammonisce i propri avversari: "Potreste pensare di esservela cavata, ma non illudetevi: questo è solo l'inizio... arriverà il giorno in cui Lucious Lyon ritornerà".
Re Lear canta il rap
Per chi ha seguito la serie della Fox, o anche per chi si è limitato al pilot, non sarà stato difficile intravedere, nella vicenda di Lucious Lyon e dei suoi tre figli (uno dei quali coraggioso e sincero, gli altri due mossi da sfrenata avidità) un modello letterario di assoluto prestigio quale il Re Lear shakespeariano: Daniels e Strong, in fondo, non hanno fatto altro che riprendere archetipi ben noti ed innervare il racconto con quei medesimi conflitti (la sempiterna lotta per il potere, il confronto impietoso tra padri e figli). Ma ancora più che a Re Lear, come indicato dallo stesso Danny Strong, Empire potrebbe essere accostato a Il leone d'inverno, capolavoro teatrale di James Goldman dal quale, nel 1968, sarebbe stato tratto anche lo splendido film omonimo con Peter O'Toole e Katharine Hepburn: la storia di un'altra successione caratterizzata da complotti e tradimenti, ma anche il ritratto, cinico e feroce, di un matrimonio a dir poco conflittuale. Esattamente come il rapporto fra Lucious e Cookie, fulcro nevralgico della serie di Daniels, fra ritorni di fiamma e, in prossimità del finale, addirittura un tentato omicidio (un twist bislacco ed assai poco credibile, ma non l'unico in Empire).
Se Lucious Lyon, patriarca tronfio e borioso, non brilla certo per simpatia (né aiuta l'interpretazione un po' legnosa di Terrence Howard) ed è lontano anni luce dal carisma di un altro antieroe televisivo quale il Frank Underwood di House of Cards, il principale punto di forza di Empire, il suo elemento di massima godibilità, è costituito invece dalla controparte femminile: sfrontata, grintosa, all'occorrenza alquanto volgarotta e dotata di una determinazione incrollabile, Cookie è il personaggio di cui nessun guilty pleasure dovrebbe fare a meno, quasi un'evoluzione più sboccata della Alexis Carrington di Dynasty. Una "cafona arricchita", nonché ex galeotta a tratti irresistibilmente simpatica, che nell'episodio finale non si risparmia un ridicolo catfight con l'acerrima rivale Anika, e che funziona soprattutto grazie alla performance efficacemente sopra le righe di Taraji P. Henson, attrice già vista accanto a Howard nel 2005 nel film Hustle & Flow e candidata all'Oscar, nel 2008, per Il curioso caso di Benjamin Button, per poi passare alla TV con la serie Person of Interest. È in primo luogo grazie a Cookie, mamma ambiziosa e protettiva ma anche abile manager discografica, se Empire è diventato un fenomeno di tale portata.
TV e guilty pleasure: cosa non funziona in Empire
Prodotto capace di convogliare l'interesse di un ampio bacino di spettatori, e in particolare di quella minoranza afro-americana (non così minoritaria, negli USA) troppo spesso ignorata dai grandi network, Empire ha potuto avvalersi pure di diverse partecipazioni di lusso: da quella della ex diva della moda Naomi Campbell nei panni della milf Camilla Marks (tralasciando le doti d'attrice non proprio innate della Campbell), a Courtney Love nella parte vagamente autobiografica di Elle Dallas, rockstar sul viale del tramonto, passando per i camei di Jennifer Hudson, Cuba Gooding Jr. e di superstar dell'r&b quali Gladys Knight, Mary J. Blige, Snoop Dogg e Patti LaBelle. Ma i segreti dello strepitoso auditel di Empire sono da ricercare più che altro nella facile presa di un intreccio che gioca con furbizia con i personaggi standard dell'immaginario televisivo: oltre al patriarca dispotico, alla bulldog mom e alla "rivale in amore" abbiamo dunque Hakeem, il rampollo viziato e superficiale che gioca a fare il rapper dal "muso duro" (con tanto di corredo di hit musicali che più becere e orrende non si potrebbe); Jamal, il protagonista positivo che si batte per far accettare la propria omosessualità al padre; e Andre, ovvero lo Iago di turno, penalizzato però da una totale inconsistenza drammaturgica (altro che Iago, insomma).
E fin qui tutto bene, cliché inclusi: perché intendiamoci, Empire non sembra certo la serie costruita per fare incetta di candidature agli Emmy (Dio ce ne scampi!), ma i primi episodi riescono a sfoderare il giusto appeal richiesto ad un guilty pleasure senza reali ambizioni artistiche. Peccato che, verso la fine della prima stagione, emergano in maniera lampante i limiti, ma specialmente i difetti, gli scivoloni e i buchi di sceneggiatura di un prodotto la cui formula già stenta a convincere. Perché anche i guilty pleasure, beninteso, costituiscono a loro modo una forma d'arte, con determinate regole e la necessità di raggiungere un delicato equilibrio fra le sue componenti narrative: un equilibrio che Empire, al contrario, troppo spesso manda in malora, fra risvolti gialli del tutto privi di tensione (i vari subplot a sfondo poliziesco appaiono incollati con lo sputo al resto della trama), colpi di scena dozzinali indegni di una telenovela sudamericana (figlie segrete che spuntano dal nulla, la malattia di Lucious comodamente tramutata in una diagnosi errata) e una drammatica inconsistenza nel disegno di personaggi come Hakeem o Andre (per non parlare di altri ruoli minori, inclusa l'inutilissima assistente Gabourey Sidibe).
Intendiamoci, una serie come Empire non va presa sul serio neanche per un minuto; ciò nonostante, per ottenere un 'buon' kitsch televisivo servono comunque alcuni accorgimenti, insieme a quell'abilità tale da permetterci di adoperare il vecchio adagio "so bad it's good". Ecco, il nostro timido consiglio per gli autori di Empire è quello di guardarsi una manciata di episodi di Revenge - ad oggi, l'insuperato guilty pleasure degli anni Dieci - e provare ad aggiustare il tiro in vista della prossima stagione. Ma d'altro canto, quando registri ventitre milioni di spettatori solo in patria, non hai certo bisogno di andare a cercare suggerimenti...