Non capita a molti cineasti di avere l'onore di "creare" un (sotto)genere cinematografico, soprattutto all'inizio della carriera. Eppure è ciò che è accaduto nel 2006 ad Eli Roth, quando il critico David Edelstein usò il suo film Hostel per coniare l'espressione torture porn, applicata poi retroattivamente a Saw - L'enigmista e La casa del diavolo. Allo stesso tempo, Roth è stato incluso in un gruppo definito Splat Pack, ossia registi che firmano un cinema horror ad alto, anzi altissimo, contenuto di emoglobina, il che dieci anni fa era considerato una sorta di antidoto alla tendenza di realizzare film del brivido fatti a misura d'adolescente. Una categorizzazione forse riduttiva, ma senz'altro azzeccata del lavoro del regista americano, un cinefilo incallito ed entusiasta che si e ci diverte da più di un decennio.
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La febbre dell'horror
Fan della prima ora di film di genere duri e puri, realizzati a basso budget e senza censure (non a caso egli si presta occasionalmente a camei nei film della Troma), Roth si fa notare per la prima volta nel settembre del 2002, quando il suo primo lungometraggio Cabin Fever viene presentato al Festival di Toronto per poi diventare, l'anno successivo, uno dei maggiori successi della LionsGate. Un traguardo glorioso per un percorso iniziato nel 1996, quando l'allora squattrinato Roth cominciò a scrivere la sceneggiatura. O almeno così è stato per lui personalmente, dato che a livello cinematografico Cabin Fever ha avuto la sfortuna di generare un pessimo sequel (disconosciuto dal suo regista Ti West) e un prequel dozzinale uscito direttamente in DVD.
La consacrazione arriva con Hostel, realizzato in parte con la complicità di Quentin Tarantino, che nel 2004 aveva definito Roth "il futuro dell'horror". Girato in Repubblica Ceca ed ambientato in un'immaginaria comunità slovacca dove chi ha abbastanza soldi può pagare per avere il privilegio di torturare ed uccidere un malcapitato turista, il film ha (inevitabilmente) generato polemiche per il contenuto cruento, per il messaggio discutibile e per una certa tendenza "maschilista" nella caratterizzazione dei personaggi e nell'uso delle scene di sesso. Il regista reagisce parzialmente a queste critiche con il secondo episodio, Hostel: Part II, dove ad essere ridotto a semplice oggetto è il corpo maschile. Anche in questo caso, però, le controversie continuano a manifestarsi, soprattutto per via dell'accezione negativa legata al concetto di torture porn (o gorno, ossia gore e porno), e gli incassi diminuiscono notevolmente rispetto al capostipite, vuoi per via dell'uscita estiva, vuoi per ragioni legate alla pirateria in alcuni mercati stranieri.
L'amico Quentin
Era inevitabile che le strade di due cinefili onnivori come Roth e Quentin Tarantino finissero per incrociarsi, e i frutti di questa unione professionale sono alquanto interessanti. Di Hostel si è già detto, e tra i due capitoli di questo franchise per stomaci forti c'è stata la parentesi Grindhouse, alla quale Roth ha contribuito sia come regista (firmando il fake trailer Thanksgiving), che come interprete, recitando per Tarantino in Grindhouse - A prova di morte. Questo porterà poi a quel tour de force che è stato la sua performance in Bastardi senza gloria, dove Roth ruba la scena a Brad Pitt e agli altri "bastardi" nei panni del sergente Donnie Donowitz, detto The Bear Jew e specializzato nell'uso di una mazza da baseball per spaccare la testa al nazista di turno.
Italia, amore mio
Come molti appassionati di cinema di genere della sua generazione, Roth nutre un particolare affetto per la produzione italiana, come si può notare soprattutto nel secondo Hostel, ambientato parzialmente a Roma e impreziosito, da un punto di vista cinefilo, da apparizioni di Edwige Fenech, Luc Merenda e Ruggero Deodato, quest'ultimo nei panni di un cannibale per rendere omaggio al celeberrimo e discussissimo Cannibal Holocaust. E proprio a quel film è dovuta l'ispirazione per il quarto lungometraggio di Roth, presentato a Toronto e al Festival di Roma nel 2013 e poi bloccato per due anni a causa di problemi distributivi, prima dell'intervento di Jason Blum e Universal. Parliamo, ovviamente, di The Green Inferno (il titolo è lo stesso del film nel film in Cannibal Holocaust), pellicola antropofaga, truculenta ed implacabile, che inaugura ora il suo percorso nelle sale tradizionali partendo proprio dall'Italia.
Orrore oggi, orrore domani, orrore per sempre
Al di fuori del suo percorso registico, che include Knock Knock, presentato quest'anno al Sundance e notevole in quanto primo film di Roth ad avere una star - Keanu Reeves - nel cast, Roth continua ad esplorare le varie evoluzioni dell'horror anche in veste di produttore, sceneggiatore o interprete. Dal suo cameo esilarante nel volutamente eccessivo Piranha 3D al found footage di The Sacrament, passando per le trasformazioni licantrope che superano ogni limite in Hemlock Grove, serial fantastico di Netflix che giunge adesso al capolinea, il nome di Eli Roth è associato ad ogni declinazione del cinema dell'orrore, pur con una certa predilezione per il gore allo stato puro. Una garanzia, se non di qualità, almeno di buon divertimento.