I prodotti Marvel Studios si stanno woodyallenizzando. Lo strano aggettivo non è usato a casaccio, perché una delle caratteristiche del brillante e divisivo autore newyorkese è proprio il suo carattere cinematografico altalenante, tanto che tra i pochissimi registi di cui la filmografia viene tutt'ora suddivisa in modo pressoché costante tra "titoli pari e titoli dispari". Il senso è presto detto: a partire dal nuovo millennio, i film di Woody Allen sono stati accolti da critica e pubblico con una curiosa alternanza tra film pari (come Midnight in Paris, per indenterci, che è il suo 42° lungometraggio) e film dispari (To Rome With Love).
Ecco, lo studio guidato da Kevin Feige sta praticamente dimostrando la stessa alternanza qualitativa tra piccolo e grande schermo in questa difficile Fase 5, comunque appesantita da una significativa superhero fatigue. Ant-Man and the Wasp: Quantumania no, Guardiani della Galassia Vol. 3 sì; Secret Invasion no, Loki 2 sì. Rispettando questo percorso, The Marvels si è rivelato una grande delusione ed Echo una bella sorpresa, almeno nei suoi primi tre episodi (leggi la nostra recensione), perdendo purtroppo fascino ed efficacia negli ultimi due, a dimostrazione che l'alternanza esiste ma che prima di tutto, a vincere, dovrebbe essere una certa costanza formale e contenutistica, non per forza rintracciabile in un titolo pari o un titolo dispari come apparenza vorrebbe farci credere.
Un riflettore che si spegne lentamente
Diciamolo subito: Echo è la seconda serie Disney+ targata Marvel Studios migliore degli ultimi due anni, comunque molto al di sotto della seconda stagione di Loki. Il risultato, però, non riguarda in termini generali l'intero comparto tecnico e narrativo, ma un'idea culturale matura e un modo di raccontarla semplice, vero ed efficace. Come già spiegato, Echo è il primo prodotto Marvel Spotlight, etichetta appositamente pensata per sviluppare storie di genere più intime e oscure, magari dedicate a personaggi secondari che altrimenti non troverebbero spazio principale nel mare magnum del marcato cinecomic, restando di fatto all'ombra dei protagonisti più amati e dei film o delle serie tv più importanti dal punto di vista commerciale. Per questo l'etichetta è un riflettore: perché illumina quelle storie e quei personaggi più sfocati, sullo sfondo, nascosti nel buio delle proiezioni dei supereroi più grandi, amati e conosciuti. E a dire il vero, ragionata così, la label fa un ottimo lavoro creativo e concettuale, specie correlata a una supereroina come Maya Lopez, che condensa nella sua persona tre minoranze differenti e funge da grande esempio di rappresentazione, essendo nativa americana, sordomuta e anche mutilata.
Nel primo caso la serie lega la cultura indiana dei Choctaw tra usanze e spiritualità ai poteri e alla formazione della protagonista, dando fondo a una collaborazione diretta con le reali comunità d'appartenenza e restituendo uno sguardo sincero sulle stesse, ovviamente mediato dal genere. In secondo luogo la lingua dei segni viene profondamente normalizzata e gestita benissimo in termini narrativi. Nel terzo caso, c'è un magnifico elemento integrativo che rende la mutilazione di una gamba momento d'appoggio ai costumi e alle credenze Choctaw, creando delle vere e proprie fondamenta su cui crescere e camminare come eroina per Maya Lopez. Ciò detto, tutto questo funziona pressoché discretamente per tre episodi, cominciando ad affievolirsi fino a spegnersi completamente nei restanti due, dove la cifra più mediocre dei Marvel Studios prende nuovamente il sopravvento e decide di chiudere un progetto ben realizzato con uno showdown irricevibile e davvero poco entusiasmante anziché rimanere fedele all'ottimo lavoro concretizzato fino a quel momento.
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Il paradigma di She-Hulk
Al netto del potenziale effettivo di un prodotto che avrebbe dovuto e potuto godere di un'adeguato sfruttamento dell'etichetta Spotlight e del Rated-R per l'intera - e comunque breve - durata dello show, Echo soffre dello stesso identico problema delle altre serie Marvel Studios, impossibilitate a rimanere fedeli a se stesse dall'inizio alla fine. Il piano sequenza action del primo episodio non viene minimante battuto da nessun'altra scena d'azione, mentre le opening scene delle prime tre puntate non trovano prosieguo nelle ultime due, che cambiano completamente struttura narrativa, tornando a qualcosa di più semplice e scontato in virtù di quello che ci (dis)piace chiamare Paradigma di She-Hulk. Perché modificare l'anima stessa di un prodotto solo per rispondere ad esigenze di formula che in realtà non si adattano più (ma mai lo hanno fatto) a qualsiasi titolo? Nel suo essere divisiva, She-Hulk ha tentato di riflettere sul modus operandi dei Marvel Studios, dimostrando come l'errore più grande che si possa commettere è realizzare progetti creati con lo stampino, suddivisi negli stessi identici atti e con premesse e conseguenze uguali. La domanda sorge spontanea: Echo aveva davvero bisogno di uno showdown conclusivo? Ovviamente no, perché per sua stessa natura lo show è stato pensato per essere più intimista, focalizzato sulle relazioni e l'apertura a una cultura differente.
Eppure alla fine sceneggiatori e registi sono stati costretti a inserirlo, creando un distacco evidente tra intenzioni iniziali e risultato finale, che è formalmente misero, gestito con un climax anti-spettacolare, idealmente correlato al modello Spotlight ma concretamente disastroso per come è composto. Il rapporto tra Maya Lopez e Kingpin torna prepotentemente al centro del discorso, dando risalto al ruolo dell'antagonista e continuando ad approfondire le relazioni familiari della protagonista, ma funziona solo in piccola parte, perché tutto viene accelerato, sminuzzato, ridotto all'essenziale per questioni di tempo e di priorità, dove le seconde sono di fatto le conseguenze della storia dal punto di vista dell'intrattenimento. A quel punto lo spettatore è però disorientato dal focus, colpito dal cambio di passo della serie e da uno sprint superficiale della narrazione. Le criticità del MCU vengono così perpetrate ancora, pure in un prodotto più che discreto oltre la metà della sua durata, anche se è giusto sottolineare che Echo appartiene a un momento storico-produttivo difficile, sicuramente rimaneggiato e di collocazione complessa, tanto che ci è stata creata sopra un'etichetta apposita.
Conclusioni
In conclusione, il finale di Echo non rende giustizia ai primi episodi della serie Marvel Spotlight, affievolendo le proprie energie nelle restanti puntate, che pure senza tradire in toto la natura più intimista e rated-r della serie non ne sfruttano appieno il potenziale. Tutto si riduce al solito shodown obbligato e appiattito e anche gli interessanti e appaganti spunti culturali e le sequenze action perdono d'efficacia, rispettando la maggior parte delle criticità già riscontrate da tempi nella Formula Marvel. Uno show sviluppato bene per più della metà della sua durata che perde forza e fascino nelle battute finali.
Perché ci piace
- Vincent D'Onofrio resta un Kingpin convincente.
- La scrittura intimista è ancora centrale...
Cosa non va
- ... Peccato per uno sprint finale che non rende giustizia al prodotto.
- Lo showdown è ideato male e realizzato peggio.
- Il rated-r diventa inutile.