Scrivendo la recensione di Downton Abbey si ha la stessa sensazione di quando abbiamo visto il film di Michael Engler, prosecuzione delle fortunatissima serie britannica andata in onda dal 2010 al 2015: quella di essere tornati a casa, in un luogo accogliente nel quale rifugiarsi per due ore, lasciando fuori dalla sala ogni preoccupazione. Questo soprattutto se lo spettatore ha visto i 52 episodi dello show, dato che il lungometraggio funge sostanzialmente da finale extralarge e chiude il cerchio, in tutti i sensi: la primissima sequenza, con il telegramma che annuncia l'evento che metterà in moto la trama del film, richiama esplicitamente l'incipit della puntata inaugurale, dove una missiva simile comunicava il naufragio del Titanic. E poi scatta il tema musicale di John Lunn e si intravede nuovamente la celeberrima dimora della famiglia Crawley, e lì è proprio il caso di dirlo: siamo tornati a casa.
Una grande rimpatriata
La storia di Downton Abbey si svolge nel 1927, circa un anno e mezzo dopo gli eventi del finale della serie, che si concludeva il primo gennaio 1926. La vita a Downton procede più o meno come sempre, fino al momento in cui Robert Crawley (Hugh Bonneville) riceve una notizia di un certo peso: i reali inglesi passeranno la notte a casa sua mentre visitano lo Yorkshire. Partono dunque i preparativi, con un entusiasmo che attraversa tutto il paesino. Non mancano però le tensioni, in particolare quando Lady Violet (Maggie Smith) viene a sapere della cosa, dato che tra lei e Lady Bagshaw (Imelda Staunton), parente lontana nonché dama di compagnia della regina, non corre buon sangue per una vecchia questione di eredità. Anche lo staff di Downton esprime un certo disappunto quando emerge che durante la visita dei reali sarà il personale di Buckingham Palace a sbrigare tutte le faccende domestiche, notizia che mette a dura prova anche lo stoico Mr. Carson (Jim Carter), il quale ritorna al servizio dei Crawley apposta per dare una mano per l'occasione.
I tempi e gli schermi cambiano, Downton Abbey no
Michael Engler aveva già diretto l'episodio di commiato di Downton Abbey, il che assicura una coerenza visiva che con il grande schermo non affievolisce, avendo il mantenuto un'estetica elegante ed ambiziosa degna dei migliori film in costume. Torna anche il creatore Julian Fellowes, con un copione che rispolvera il sistema delle classi sociali britanniche con la solita sagacia, senza dimenticare i dialoghi calibrati al millimetro, da ascoltare rigorosamente in originale per apprezzare il sarcasmo tipicamente british di personaggi come Violet, un'autentica miniera d'oro per quanto riguarda le frasi più memorabili del film ("Io non litigo. Spiego.").
Spazio a tutti i personaggi
Proprio il lavoro sui personaggi è la cosa che colpisce di più nella transizione dal piccolo al grande schermo: avendo a disposizione solo due ore per raccontare questa nuova storia, cioè un quarto della durata media di una stagione del prototipo, Fellowes ed Engler si assicurano che ci sia pane a sufficienza per i denti di ognuno (con l'eccezione parziale di Henry Talbot, ridotto a un cameo a causa di altri impegni lavorativi di Matthew Goode). Anche se in realtà la vera protagonista rimane lei, la dimora di Downton, e proprio in tale ottica si può leggere una battuta che allude a un modo di continuare a raccontare queste storie senza per forza ricorrere al cast originale: chissà cosa avrebbero da dire, novant'anni dopo, i nuovi Crawley a proposito della Brexit...
Venghino siori, venghino
Come abbiamo già detto, il film è un vero e proprio sequel della serie Downton Abbey, anzi, praticamente un finale esteso (la porta rimane aperta, ma si respira un'aria di chiusura piuttosto definitiva in certi punti). Pertanto i neofiti rischiano in parte di apprezzarlo di meno: da un lato la struttura è volutamente accessibile per chi non ha mai visto un episodio della serie, senza perdersi in infiniti cunicoli legati alla continuity e con una premessa che, per quanto ambiziosa, non differisce più di tanto dal livello non esattamente epocale degli eventi-chiave dello show; dall'altro alcuni archi narrativi specifici, legati a singoli personaggi, perdono una minima quantità di spessore (pensiamo soprattutto a Thomas Barrow, che nelle prime due stagioni era praticamente un antagonista e in questa sede diventa una splendida figura tragica, sfruttando il format cinematografico per approfondire aspetti che sul piccolo schermo erano per lo più accennati). In entrambi i casi, però, ci sa avvolgere in quella magnifica coperta di rassicurante intrattenimento intelligente, due ore di viaggio nel passato che, dalla prima all'ultima inquadratura, sanno di grande, piacevolissima rimpatriata. Anche per coloro che proprio in questa sede si faranno conquistare per la prima volta dalle note di Lunn e dalle freddure di Violet. Che sia la prima visita o la centesima, Downton sarà sempre lì, in un modo o nell'altro.
Conclusioni
Giunti in fondo alla nostra recensione di Downton Abbey scatta un po' la malinconia, al pensiero di doverci nuovamente allontanare dal mondo ideato dieci anni fa da Julian Fellowes. A quattro anni dalla conclusione della serie, ritrovare la famiglia Crawley è come ricongiungersi con dei vecchi amici, le cui nuove esperienze non hanno intaccato il legame affettivo originale. Consigliata la visione in lingua originale, soprattutto per la performance di Maggie Smith.
Perché ci piace
- La transizione narrativa e visiva dal piccolo al grande schermo è ineccepibile.
- Il cast è affiatato come ai tempi della serie.
- Il fascino British del mondo di Downton è rimasto intatto.
Cosa non va
- Peccato duri solo due ore.
- Chi non conosce la serie potrebbe non cogliere del tutto alcuni archi narrativi.