Detroit: Become Human - Anche gli androidi sognano film interattivi?

Abbiamo giocato al nuovo progetto videoludico di David Cage e della sua software house Quantic Dream, Detroit: Become Human. Da un punto di vista visivo ed artistico è un vero spettacolo, sia in termini di realizzazione grafica che come design, con un impressionante il lavoro sui personaggi grazie ad animazioni ed espressioni facciali senza precedenti.

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Se siete amanti di videogiochi e film, conoscerete già David Cage e la sua software house Quantic Dream. Se non altro perché ci ha regalato quello che, ancora oggi, è uno dei titoli che meglio rappresenta il (quasi) perfetto connubio tra cinema e videogame: il thriller interattivo dal sapore tutto fincheriano Heavy Rain. Con questo nuovo progetto, Detroit: Become Human, il game designer francese decide di farsi più ambizioso e puntare ancora più in alto. Realizzando un'opera, nei temi e nella struttura, che non è altro che il concetto di libero arbitrio applicato alla narrazione.

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Non che il gameplay di questa nuova esclusiva PS4 sia particolarmente rivoluzionario - come sempre vi rimandiamo alla recensione più tecnica e dettagliata dei nostri cugini di Multiplayer.it - ma è il suo perfetto combaciare con la storia che vuole raccontare a renderlo un'esperienza unica nel suo genere. Perché di androidi in cerca di libertà che diventano più umani dei loro creatori ne abbiamo visti tanti nei libri e sugli schermi, ma mai fino ad ora eravamo stati chiamati a vivere in prima persona questa presa di coscienza. E a scegliere come e quando farla avvenire.

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You say you want a revolution...

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In Detroit: Become Human impersoniamo tre differenti replicanti, ognuno con caratteristiche e mansioni ben specifiche, ma tutti ancora fedeli ai loro creatori in ogni singolo aspetto. Markus si prende cura di un anziano pittore; Kara è una governante presso una famiglia disagiata; Connor è invece il prototipo più avanzato della multinazionale CyberLife, ed è stato inviato in supporto alla polizia per fare la caccia ai devianti, ovvero tutti quegli androidi che stanno dando segni di malfunzionamento, mostrando emozioni umane e contravvenendo alla programmazione originale.

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I primi due, inevitabilmente, finiranno per ribellarsi in seguito ad eventi traumatici, mentre il terzo si metterà alla loro ricerca insieme ad un collega umano. Ma noi giocatori decidiamo il fato di tutti e tre i personaggi, e questo vuol dire che ben presto finiremo col dare la caccia a noi stessi. A metà gioco, per esempio, c'è un inseguimento che coinvolge sia Kara che Connor, e quindi nel giro di pochi secondi dobbiamo fare in mondo che un personaggio scappi e l'altro cerchi di acciuffarlo. Il tutto ovviamente senza avere nemmeno il tempo di ragionare sulle conseguenze, ma agendo di puro istinto.

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Diventare umani

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Ma il grande fascino del gioco è proprio questo: perché le scelte che compiamo, e che sono migliaia, non solo non sono mai fini a loro stesse - anzi, come già in altri titoli precedenti, hanno conseguenze reali e tangibili su tutta la narrazione - ma non portano mai ad un risultato migliore dell'altro, giusto o sbagliato. Sono semplicemente, come nella vita vera, un qualcosa che facciamo senza renderci mai realmente conto delle conseguenze. E senza alcuna assicurazione che tutto andrà veramente bene, pensando che tanto è un videogioco e male che va possiamo tornare indietro e "correggere l'errore". In Detroit: Become Human semplicemente non si può, perché l'errore non esiste. Se in Heavy Rain era assolutamente possibile fallire nello scopo ultimo del gioco, per esempio non scoprendo l'identità dell'assassino o non riuscendo a salvare il bambino rapito, con Detroit questo rischio proprio non c'è. David Cage porta davvero avanti il concetto di libero arbitrio come mai visto prima d'ora in nessuna opera, e fa in modo che siano solo la nostra morale e la nostra filosofia di vita a guidarci.

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È meglio ribellarsi o accettare quello che ci viene imposto? Preferiamo predicare il pacifismo anche a costo di continuare a subire in silenzio o crediamo nel principio dell'occhio per occhio? Siamo disposti a sacrificare una vita pur di conoscere la verità? Ma soprattutto, che valore ha per noi la vita degli androidi? Sono persone che meritano di essere libere o soltanto degli oggetti di cui possiamo godere a nostro completo piacimento? Più che a raccontarci una storia, David Cage sembra interessato ancor di più a scoprire e farci scoprire come siamo fatti noi stessi. Tanto che per ogni scelta che compiamo ci vengono fornite le percentuali di amici e sconosciuti che hanno giocato prima di noi, e perfino nel menu principale, attraverso un'androide talmente bella da sembrare vera, ci testa e ci mette continuamente alla prova, come a indicarci che alcune scelte, alcune riflessioni che ci ha provocato restano con noi anche al di fuori del gioco e della storia.

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Detroit, dove tutto è permesso

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Anche perché, diciamo pure la verità, la storia di Detroit: Become Human non è certo il massimo dell'originalità, ma anzi abbonda di cliché e situazioni già viste in (neo)classici come Blade Runner, Ex Machina e Westworld o anche Matrix e Apes Revolution - Il pianeta delle scimmie. Considerata la lunghissima lavorazione del videogioco, va detto che almeno un paio dei titoli di cui sopra non erano ancora usciti quando Cage aveva scritto la lunghissima e articolatissima sceneggiatura multipla di Detroit, ma in realtà poco importa. All'inizio del gioco ci viene detto che "questa non è solo una storia, ma il nostro futuro", ed è per questo che non viene mai ricercata l'originalità o il colpo di scena, ma piuttosto la riflessione o i sentimenti.

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Così come poco importa se davvero in futuro ci troveremo ad affrontare questi stessi dilemmi morali, perché in fondo l'abbiamo già fatto in passato più volte. Un altro dei meriti del gioco è quello di richiamare in maniera diretta e anche molto dura eventi del passato come la segregazione e la schiavitù dei neri o l'Olocausto, mostrandoci come in fondo l'impossibilità di accettare il diverso sia tipico dell'animo umano. Una scelta che probabilmente farà arrabbiare molti, ma anche una brillante provocazione che fa immediatamente vivere questo "gioco" come un qualcosa di più dal punto di vista del coinvolgimento emotivo e del suo impatto socio/culturale.

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Welcome to the Real World

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A rendere questa esperienza così coinvolgente e realistica non è solo l'ottima scrittura di Cage, ma anche la sua regia. La scelta delle inquadrature tradisce ancora una volta la sua grande passione per il cinema e non sono poche le citazioni, anche molto colte, disseminate nel corso del "film". Da un punto di vista visivo ed artistico Detroit è un vero spettacolo, sia in termini di realizzazione grafica che come design, ed anche la presenza di una tripla colonna sonora (una per ogni protagonista) non fa altro che aumentare la sensazione di trovarsi davanti ad un'opera cinematografica a tutti gli effetti.

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Ancora più impressionante è il lavoro sui personaggi, con animazioni ed espressioni facciali senza precedenti ed un motion capture che si avvale di attori più e meno noti: se per i tre protagonisti abbiamo rispettivamente Jesse Williams (Quella casa nel bosco) , Valorie Curry (The Following) e Bryan Dechart (Jane by Design) nei panni di Markus, Kara e Connor, per alcuni dei non protaganisti sono stati scelti dei veri e propri beniamini del piccolo e grande schermo come Minka Kelly (Friday Night Lights), Clancy Brown (Highlander - L'ultimo immortale) e Lance Henriksen (Aliens - Scontro finale). Forse la storia e il mondo raccontatici da Detroit: Become Human non saranno davvero il futuro del genere umano, ma ci sono pochi dubbi che questa tecnologia e questo modo di unire arte e gioco lo siano per quello dell'intrattenimento.

Movieplayer.it

4.0/5