Lui, Ken Loach, nato nella cittadina di Nuneaton, nel Warwickshire, ha tagliato il traguardo degli ottant'anni, ma l'età non sembra aver scalfito di un solo grammo la grinta e la forza polemica del più militante fra i cineasti d'Europa. Loro, Jean-Pierre e Luc Dardenne, fratelli nati a Liegi, in Belgio, da oltre vent'anni si occupano di rappresentare le vite degli umili e le difficoltà del mondo del lavoro, senza la 'rabbia' di Loach ma con uno sguardo più asciutto e calibrato, e non per questo meno emozionante.
C'è Ken Loach, ci sono i fratelli Dardenne, ma c'è anche qualcun altro: Cristian Mungiu, nato a Iasi, in Romania, quarantotto anni fa, e da quasi un decennio capofila di quella Nouvelle Vague del cinema rumeno che ha raccontato al pubblico le contraddizioni, le storture e i drammi di una nazione protesa verso un'auspicata modernità, ma ancora intrappolata in meccanismi modellati all'epoca della dittatura di Nicolae Ceausescu. Insomma, cos'hanno in comune questi quattro cineasti, oltre al fatto di aver partecipato alla scorsa edizione del Festival di Cannes (una rassegna che li ha visti più volte raccogliere premi ed applausi)?
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Loach, Mungiu e i Dardenne: gli alfieri del cinema civile
In queste settimane Cristian Mungiu, Ken Loach e i fratelli Dardenne, in ordine di tempo, sono approdati nelle sale italiane, dopo la partecipazione al concorso di Cannes, con i loro nuovi film: rispettivamente Un padre, una figlia, Io, Daniel Blake e La ragazza senza nome. Tre opere che, ciascuna con la propria storia e i propri personaggi, e benché ambientate in nazioni diverse, presentano più di un'analogia: il rigoroso realismo nel loro approccio narrativo; l'attenzione a tematiche legate al lavoro e ad altri nervi scoperti della nostra attualità (la disoccupazione, l'assistenza statale, la microcriminalità); e il profondo respiro etico che costituisce il "soffio vitale" di questi tre film, senza però scivolare nel facile moralismo. Le questioni di natura etica, ovviamente, non sono rimaste ad esclusivo appannaggio di questi tre titoli: sempre a Cannes, ad esempio, Cristi Puiu ci ha offerto in Sieranevada un problematico affresco dei valori al cuore della società rumena, fra tradizione e fede religiosa, mentre l'americano Jeff Nichols ha preso di petto la questione del razzismo in Loving (assai più maldestro il tentativo di Sean Penn di denunciare le stragi in Africa in The Last Face).
E oggi, nel panorama del cinema d'autore europeo, Cristian Mungiu, Ken Loach e i fratelli Dardenne rappresentano soprattutto questo: l'orgogliosa affermazione di un cinema di impegno civile che, tuttavia, non si limita ad adagiarsi nelle comode pieghe del "film a tesi", ma punta ad esplorare i centri nevralgici della società contemporanea. Un impegno civile declinato in modi specifici, e che nei registi appena elencati trova forse i suoi massimi alfieri. Dunque, in occasione dell'uscita de La ragazza senza nome dei Dardenne, distribuito in Italia da BIM, proviamo ad analizzare le tre pellicole citate sotto tale ottica, interrogandoci sul ruolo e sul senso di questo tipo di cinema all'interno della realtà a cui apparteniamo e con la quale ci troviamo a fare i conti giorno per giorno.
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Un padre, una figlia: c'è del marcio in Romania
Vincitore a Cannes del premio per la miglior regia, il 30 agosto è uscito nelle sale italiane, sempre grazie a BIM, Un padre, una figlia, nuovo lavoro di Cristian Mungiu. Esploso sulla scena internazionale nel 2007 grazie a 4 mesi, 3 settimane e 2 giorni (Palma d'Oro al Festival di Cannes), crudo resoconto di un tentativo di aborto illegale nella Romania sottoposta al regime di Ceausescu, Mungiu è un autore in cui i richiami al realismo e l'analisi psicologica diventano gli strumenti per dipingere un affresco sociale impietoso e raggelante. È quanto avviene pure in Un padre, una figlia, in cui il protagonista, Romeo Aldea (Adrian Titieni), rinomato chirurgo, viene messo di fronte al dramma della figlia Eliza (Maria-Victoria Dragus): una brillante studentessa di liceo la quale, alla vigilia degli esami di Stato che le permetteranno di ottenere una borsa di studio per frequentare l'università in Gran Bretagna, subisce un tentativo di violenza sessuale proprio all'ingresso della scuola.
Il trauma che colpisce Eliza ha effetti ancora più nefasti nel momento in cui rischia di compromettere l'esito del suo esame e, di conseguenza, la prospettiva di costruirsi un futuro in un paese più libero e onesto, come i suoi genitori hanno sempre desiderato per lei. Ed è a questo punto che Mungiu pone il suo protagonista - e con lui lo spettatore - dinnanzi a un autentico bivio morale: rispettare le regole fino in fondo, coerentemente con i principi che l'uomo ha sempre insegnato alla figlia, o ricorrere a piccole 'scorciatoie' per permettere a Eliza di superare l'esame con il massimo dei voti. Ma le scorciatoie, ci suggerisce Mungiu, non sono mai brevi ed innocue come si potrebbe supporre, e le scelte di Romeo provocheranno una sorta di "effetto domino" di favori reciproci e di rischi giudiziari; mentre la cornice della vicenda, la Romania contemporanea impegnata a integrarsi nell'Unione Europea, assume le sfumature ambigue di un paese ancora dominato dalla corruzione.
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Io, Daniel Blake: la dignità dell'essere umano
Assai più veemente, rispetto alla compostezza - comunque tesissima - del cinema di Mungiu, è l'opera del regista più a sinistra della Gran Bretagna, Ken Loach. A dieci anni esatti dalla sua prima Palma d'Oro a Cannes con Il vento che accarezza l'erba, Loach ha riportato un inatteso secondo trionfo a Cannes grazie a Io, Daniel Blake, dal 21 ottobre nelle nostre sale (in contemporanea con l'uscita in patria): il calvario del protagonista eponimo, interpretato dal bravissimo Dave Johns, attore televisivo al suo primo ruolo per il grande schermo. Daniel Blake è un vedovo alla soglia dei sessant'anni che vive a Newcastle ed è costretto a interrompere la sua attività di falegname a causa di problemi cardiaci che gli impediscono di lavorare e che dovrebbero garantirgli l'assistenza dello Stato. Un cavillo burocratico e la superficialità di un funzionario pubblico costringono però Daniel a richiedere il sussidio di disoccupazione, in attesa che venga riconosciuta la gravità delle sue condizioni di salute.
Pellicola inesorabilmente amara, implacabile nella sua invettiva contro una burocrazia kafkiana e senza volto, Io, Daniel Blake riassume in sé i pregi, così come i limiti del cinema di Ken Loach: la severità di uno sguardo volto a denunciare le carenze del sistema assistenziale pubblico; la condanna di uno Stato spesso incapace di sopperire ai problemi dei cittadini; e, di contro, la celebrazione del valore della solidarietà, espresso superbamente nel film attraverso il rapporto di amicizia e di aiuto reciproco fra Daniel e una giovane madre single, Katie (Hayley Squires), ridotta sull'orlo della disperazione. Certo, il film di Loach risente di quello schematismo manicheo tipico di molte pellicole del regista inglese; eppure mai come oggi, in un'Europa ancora gravata dagli effetti della crisi economica e da una disoccupazione dilagante, si avverte il bisogno di un cinema così fieramente schierato dalla parte della working class e pronto a dar voce agli 'umili', in un'audace rivendicazione del diritto alla dignità di ciascun essere umano.
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La ragazza senza nome: un murder mystery nel segno dell'etica
Da giovedì scorso, infine, è nelle nostre sale La ragazza senza nome, ultima fatica dei fratelli Dardenne: due registi in cui l'interesse per il mondo del lavoro, le sue dinamiche e i suoi problemi è sempre stato legato a doppio filo all'esplorazione della coscienza dell'individuo, fra dubbi, scelte difficili e necessità di espiazione. Aspetti, quelli appena descritti, facilmente rintracciabili in tutti i film dei due cineasti belgi: dalle due opere ricompensate entrambe con la Palma d'Oro, Rosetta del 1999 e L'enfant del 2005, passando per Il figlio, Il matrimonio di Lorna, Il ragazzo con la bicicletta (Gran Premio della Giuria nel 2011), fino al precedente Due giorni, una notte, sulla straziante lotta per la sopravvivenza - ovvero per mantenere il proprio posto di lavoro - da parte dell'operaia interpretata da Marion Cotillard. La ragazza senza nome, accolto tiepidamente a Cannes, potrebbe apparire come un'opera minore, ma costituisce in realtà uno dei film più sorprendenti dei Dardenne, già a partire dal suo modello narrativo: il giallo, le cui regole - il delitto, un mistero da risolvere, la ricerca dell'assassino - vengono sfruttare dai registi in una chiave decisamente originale.
La focalizzazione del pubblico coincide con quella della protagonista, Jenny Davin (Adèle Haenel), giovane medico in un ambulatorio di Liegi che una sera, dopo la fine dell'orario, non risponde al citofono del suo studio. Quando viene a sapere che a tentare di contattarla era stata una ragazza poi ritrovata senza vita lì nei paraggi, Jenny avverte il rimorso per non averle aperto la sua porta e decide di "dare un nome" a quella vittima sconosciuta, indagando in prima persona al fine di scoprirne l'identità. La veste del poliziesco, tuttavia, non è che il pretesto per il vero obiettivo dei fratelli Dardenne: vale a dire, porre tanto Jenny quanto gli altri comprimari davanti alle rispettive responsabilità morali, in un "concorso di colpa" in cui la volontà di rendere giustizia a un cadavere senza nome si scontra con un'omertà diffusa. La 'purezza' di Jenny, la quale ha deciso di dedicare la propria vita alla cura del prossimo (numerose scene sono dedicate agli aspetti quotidiani della sua professione), diventa allora il paradigma etico con cui tutti gli altri personaggi sono tenuti a confrontarsi; e i Dardenne, attraverso l'ennesimo, bellissimo film della loro carriera, tornano a ricordarci il valore della coscienza come ineludibile baluardo della nostra umanità. Un'umanità a cui Jenny, come gli altri eroi del cinema dei Dardenne, non è più disposta a rinunciare, neppure per un attimo.
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