La saga di Creed è più viva che mai. Mentre il terzo capitolo del franchise cinematografico raggiunge i 117 milioni nel mondo, l'interprete e regista Michael B. Jordan annuncia l'espansione di quello che definisce Creed Universe anche tra serialità, animazione e spin-off. Il franchise corre ormai sulle proprie gambe e l'addio di Sylvester Stallone sembra non aver intaccato il successo o la qualità del prodotto, seppure al prezzo di un vuoto emotivo soprattutto legato all'affetto dei fan per Rocky Balboa. La saga non ha mai nascosto la sua natura transitoria e di eredità spirituale, come un vero e proprio passaggio di testimone, e il nuovo film (qui la recensione di Creed III) si presenta di fatto come la massiccia ed evidente finalizzazione di questa eventualità infine concretizzata.
A dare insieme caratteri differenti e unicità ai tre capitoli del franchise ci hanno pensato soprattutto i tre diversi registi: Ryan Coogler, Steve Caple Jr. e Michael B. Jordan. Al netto di una scrittura che è drasticamente mutata solo in questo terzo film - data l'assenza di Sly anche come sceneggiatore -, a modificare peso stilistico e concettuale della serie ci hanno pensato in particolare gli scontri sul quadrilatero, la loro messa in scena e relativa struttura tecnico-visiva. È così Creed è riuscito ad evolvere e mutare tra regia e narrazione proprio grazie ai combattimenti sul ring e alla grammatica d'azione dei rispettivi filmmaker, elementi che andremo oggi ad analizzare in questo approfondimento dedicato.
Un colpo continuato
Uscito nove anni dopo Rocky Balboa, Creed si presentava nel 2015 come un nuovo inizio per la saga sportiva creata da Stallone. Quest'ultimo ha ricoperto il ruolo di produttore e ripreso i panni del suo iconico personaggio, questa volta non da protagonista ma come mentore del figlio dell'amico e rivale Apollo Creed. L'intenzione del rilancio era avvicinare il mondo del pugilato di Rocky alle nuove generazioni e dare al mitico stallone italiano una dimensione più adatta al suo tempo, permettendogli anche di concludere il suo percorso filmico e chiudere ogni trascorso ancora aperto. Per dare così nuovo e vivace smalto al franchise Ryan Coogler è partito da una sceneggiatura dove dramma sportivo e umano incontravano con sintonia anche toni da commedia, raggiungendo però un'espressione cinematografica davvero entusiasmante grazie alla messa in scena degli incontri sul ring.
Mentre in passato John G. Avildsen e Stallone non cercavano il virtuosismo tecnico all'interno degli scontri, concentrandosi molto di più su di un'adeguata e verosimile riproposizione delle mosse agonistiche, Coogler ha riformulato da zero il combattimento, decidendo di ammodernarlo partendo dall'ossatura estetica della sequenza e dalla sua stessa narrazione. L'intuizione è folgorante: dirigere gli incontri in piano sequenza, uno sempre diverso dall'altro. Non tutti i combattimenti sono in verità confezionati con questa tecnica, scelta comunque voluta per nobilitare a tempo debito le scene ideate in quel modo.
Quando queste riempiono però lo schermo, Coogler fa entrare direttamente nel quadrilatero lo spettatore e lo accompagna all'interno dello scontro senza mai spezzare la narrazione dell'azione, dando continuità alla sequenza e razionalità a ogni colpo sferrato. Il piano sequenza ci guida attraverso i punti di vista di Creed e dei vari sfidanti, agli angoli del ring e alla sue corde, lasciandoci vivere l'intera esperienza pugilistica nella sua totalità e mediante la forma cinematografica che più di altre imita e cattura il reale in ogni sua tonalità espressiva. Nel film si susseguono in contesto altre geniali intuizioni narrative (pensiamo ad esempio alle sole inquadrature dei dettagli - sangue, asciugamani, campana ecc - per raccontare uno di questi incontri), ma il piano sequenza sul quadrilatero resta insuperabile.
Epica e brutalità
Alla regia del Creed II subentra il semi-sconosciuto Steven Caple Jr, comunque coadiuvato dalla scrittura e dall'esperienza di Stallone e dalla passione di Coogler come produttore esecutivo. Il regista decide di voler sfruttare appieno un'occasione irripetibile, puntando a innovare nuovamente la saga e proporre una visione il più possibile personale, creativa e concettualmente fedele alla storia raccontata. Il sequel è un vero e proprio scontro d'eredità che trova personificazione nei volti e nei colpi di Adonis e di Viktor Drago (Florian Munteanu), figlio di Ivan Drago (Dolph Lundgren). È anche un revenge movie bicefalo: da un parte la vendetta di Creed per la morte di Apollo, dall'altra quella di Viktor per la sconfitta del padre contro Rocky.
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Il film riempie i suoi polmoni cinematografici di epica e la scrittura di Stallone si fa più drammatica e nostalgica - dovendo dire definitivamente addio al franchise - ma è sul ring che Caple Jr. bilancia "la vita" e mettere a nudo l'anima sportiva e umana dei due rivali. Per farlo ragiona e lavora in senso diegetico alla brutalità e all'efferatezza dello stile di Drago, seguendo l'intera creazione ed evoluzione delle coreografie tra lui e Adonis per individuare i migliori punti ripresa sul quadrilatero, le giuste angolazioni, i mezzi più adatti a dare vigore, veridicità e virtù ai combattimenti.
Sfrutta rallentamenti e close up, droni e soggettive per trasmettere passionalità e fisicità dello scontro, il suo cuore più muscolare e frenetico che questa volta vive di un montaggio serrato, dinamico, adrenalinico. È l'epica dell'azione che entra sul ring per imitare - ma meglio - quanto fatto nel 1985 da Stallone in Rocky IV, ricalibrando il tiro concettuale e anzi ribaltandolo per arrivare a confezionare un film capace di parlare al massimo delle sue capacità la lingua più viscerale del pugilato.
Guardando a oriente
Senza più Rocky nei paraggi, Creed si ritrova a dover proseguire il suo percorso cinematografico in solitaria. La Universal crede (in nome omen) fermamente nel progetto e dà luce verde a un terzo capitolo, con Ryan Coogler ancora produttore e una sceneggiatura firmata da Keenan Coogler, fratello dell'autore. Il regista è però impegnato con Black Panther: Wakanda Forever e Caple Jr. è chiamato a dirigere _Tansformers - Il Risveglio__, il che porta alla ricerca di un nuovo filmmaker. La scelta ricade infine sullo stesso Jordan, che dopo anni d'esperienza accumulati circondato da autori di genere di vario calibro (pensiamo anche a Destin Daniel Cretton o Stefano Sollima) e data la sua vicinanza e dedizione alla saga decide di debuttare dietro la macchina da presa e mettersi definitivamente in gioco anche sul piano registico. E il risultato è davvero encomiabile, magari non come un montante distruttivo da K.O. assicurato ma vicino a un jab ben assestato e che va a segno con sicurezza e determinazione.
È in particolare la sua visione dei combattimenti a risultare insieme introspettiva e folgorante, quasi fosse una somma ideale ma completamente differente delle precedenti messe in scena, dove è vivida e pulsante la narrazione nell'azione e dove il montaggio è strutturato con la stessa aggressività e la stessa dinamicità del precedente scenario. A ispirare maggiormente Jordan per questo incredibile lavoro concettuale sono stati gli anime giapponesi, da Dragon Ball Z fino ad Hajime No Ippo, passando anche per Naruto, My Hero Academia o Megalo Box. Dentro ai suoi incontri si abbracciano infatti molteplici stili e tecniche di ripresa legati però dalla stessa volontà espressiva, cioè quella di mostrare e confrontare valori e personalità sportive differenti entrando direttamente nell'anima dei due avversari. Lo scontro deve allora ragionare tanto sul racconto fisico del combattimento quanto su quello introspettivo dei combattenti senza però esasperare più del dovuto l'azione e allontanarla senza soluzioni di ritorno dal contesto pugilistico.
Strizzando anche vagamente l'occhio a Sherlock Holmes di Guy Ritchie, Jordan raggiunge il suo massimo potenziale cinematografico nello scontro finale tra Creed e Dame Anderson (Jonathan Majors), che condensa alla perfezione le sue ispirazioni concettuali e traduce con efficacia le sue intenzioni registiche. Nessuna parola, niente rumori, intorno solo nero e sotto i piedi soltanto il quadrilatero. Nell'aria solamente il suono dei colpi sferrati e le urla e i ringhi di Adonis e Damia, belve inferocite che stanno lottando tanto fuori quanto dentro uno contro l'altro. La scena è intrisa di una certa fantasia onirica che richiama alla mente persino Mine di Fabio Guaglione, specie quando sopraggiunge l'analogia visiva della gabbia, ma lo scontro resta centrato, lo stile caratteristico, l'entusiasmo alle stelle. Un debutto da ricordare e un'altra regia "da combattimento" energica e ispirata che rende Creed uno dei migliori franchise sportivi di sempre.
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