Quando, la settimana scorsa, il New York Times ha pubblicato la sua classifica dei cento migliori film del ventunesimo secolo, le scelte degli elettori - più di cinquecento persone fra registi, interpreti e altri addetti ai lavori - hanno offerto come prevedibile materia di riflessione e di dibattito. Qual è il nuovo canone cinematografico in via di definizione a partire dall'anno 2000? Ed è possibile sottrarsi all'egemonia americana? Entrambi gli interrogativi devono fare i conti con una questione di metodo: la maggior parte degli esperti consultati dal New York Times per redigere l'elenco proviene infatti dall'industria hollywoodiana, con una conseguente focalizzazione sul cinema prodotto in territorio statunitense (che occupa infatti tre quinti della classifica). Ma analizzando i cento titoli più votati, c'è un dato che salta all'occhio: la presenza di Chiamami col tuo nome come unico film italiano.
La classifica del New York Times fra l'anglocentrismo e il fascino della vecchia Europa

È pur vero che la suddetta classifica risulta tendenzialmente anglocentrica, eppure non manca una certa attenzione per cinematografie ben lontane da Hollywood. Innanzitutto, ad aver raggiunto il primo posto è Parasite, il popolarissimo thriller a sfondo sociale firmato nel 2019 dal regista sudcoreano Bong Joon-ho: un primato significativo, di cui abbiamo già parlato in un relativo approfondimento. Nei piani alti della classifica troviamo inoltre In the Mood for Love di Wong Kar-wai (Hong Kong), La città incantata di Hayao Miyazaki (Giappone), City of God di Fernando Meirelles (Brasile), La tigre e il dragone di Ang Lee (Taiwan) e Y tu mamá también di Alfonso Cuarón (Messico). Poco spazio per l'Europa? Nì; la produzione europea più alta in classifica - al dodicesimo posto - batte bandiera britannica (seppure recitata in tedesco) ed è La zona d'interesse di Jonathan Glazer, angosciosa immersione nella quotidianità di Auschwitz.

È alla posizione numero 37 che campeggia l'unica pellicola di un regista italiano: Chiamami col tuo nome, trasposizione dell'omonimo romanzo di André Aciman realizzata nel 2017 dal palermitano Luca Guadagnino e accolta con immediato entusiasmo da critica e pubblico, sul suolo americano prima ancora che in Italia. La classifica del New York Times ha dunque un problema con il cinema europeo? Non proprio. Preso atto del sostanziale anglocentrismo di questo elenco, è pur vero che la Germania è riuscita a piazzare comunque due titoli, Le vite degli altri e Vi presento Toni Erdmann, mentre la Francia può vantare un totale di ben sei film all'interno della classifica: in ordine decrescente, Anatomia di una caduta, Il profeta, Ritratto della giovane in fiamme, Il favoloso mondo di Amélie, Amour e La vita è un raccolto. Possibile che invece al cinema italiano, a dispetto di un passato glorioso, sia stato riservato un misero uno percento?
Il cinema italiano sta uscendo dal canone?

Si tratta di un curioso paradosso, se consideriamo che le analoghe classifiche dei più grandi film di sempre sono popolate dagli immancabili La dolce vita e 8½ di Federico Fellini, Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, Viaggio in Italia di Roberto Rossellini, L'avventura di Michelangelo Antonioni e Il Gattopardo di Luchino Visconti, giusto per limitarsi ai titoli plebiscitari. E che lo stesso New York Times, non più di un anno fa, nello stilare il suo elenco dei cento migliori libri del ventunesimo secolo aveva celebrato in prima posizione L'amica geniale di Elena Ferrante, presente in classifica pure con La figlia oscura e I giorni dell'abbandono. Possibile che una scrittrice italiana si sia imposta a tal punto sullo scenario internazionale, ma che i nostri cineasti fatichino a far breccia nella stessa misura? Soprattutto tenendo conto che il problema non risiede certo nella carenza di registi e autori di talento?

Insomma, perché Guadagnino sì e gli altri no? Proviamo intanto a partire dagli 'altri'. Parlando di cineasti che si erano già affermati in precedenza, i primi nomi a venire in mente sono Nanni Moretti e Marco Bellocchio. Negli ultimi venticinque anni, entrambi hanno diretto alcuni tra i loro film più acclamati: per Nanni Moretti basti ricordare La stanza del figlio, che però, nonostante la Palma d'Oro al Festival di Cannes 2001, non ha avuto un impatto così netto e duraturo al di fuori del circuito europeo. La recente produzione di Marco Bellocchio annovera opere del calibro di Buongiorno, notte, Vincere e Il traditore: film bellissimi, ma legati in maniera endemica alla storia italiana e al nostro immaginario nazionale, e pertanto con ovvie difficoltà a parlare con la stessa forza a un pubblico privo di riferimenti rispetto agli "anni di piombo" o alla lotta alla Mafia.
Da Cannes e Venezia agli Oscar: Matteo Garrone e Paolo Sorrentino

I nomi di maggior peso, fra i cineasti emersi nei primi anni del ventunesimo secolo, sono ovviamente quelli di Matteo Garrone e Paolo Sorrentino, i due registi italiani più blasonati nell'ambito dei grandi festival europei. Garrone ha collezionato per due volte, con Gomorra e Reality, il Gran Premio della Giuria a Cannes (il secondo trofeo per importanza), mentre neanche due anni fa, per Io capitano, ha ricevuto il Leone d'Argento per la regia a Venezia e la nomination all'Oscar; nel palmarès di Sorrentino figurano invece il Premio della Giuria a Cannes per Il Divo, il Gran Premio della Giuria a Venezia per È stata la mano di Dio e ovviamente l'Oscar come miglior film straniero per il suo maggiore successo mondiale, La grande bellezza. Per uno dei due c'erano dunque legittime chance di guadagnarsi un posto nel nuovo canone cinematografico secondo il New York Times?

Matteo Garrone aveva riscosso elogi trasversali nel 2008 per Gomorra, ma la specificità 'geografica' del dramma criminale tratto dal libro di Roberto Saviano aveva rappresentato un probabile limite alla sua diffusione in territorio americano: il film, nonostante le ottime premesse, aveva mancato per un soffio la candidatura all'Oscar, e gli incassi negli USA si erano rivelati alquanto modesti. Si può presumere in compenso che Paolo Sorrentino abbia riportato un discreto numero di voti per La grande bellezza: un affresco barocco e decadente della città di Roma, con un appeal dagli echi felliniani che, nel 2013, aveva suscitato entusiasmi a più latitudini, ma in proporzioni non sufficienti per rivendicare, dodici anni più tardi, un posto di rilievo nella lista del New York Times. In sostanza, forse più un trionfo isolato che non un modello destinato a esercitare un'influenza su altri autori.
Una grande autrice in ascesa: il caso di Alice Rohrwacher

C'è però un altro nome che, seppure con minore visibilità rispetto a Garrone e Sorrentino (e con una frazione del loro successo commerciale), si è ritagliato una considerazione crescente presso la critica internazionale: quello di Alice Rohrwacher. Nata in Toscana e cresciuta in Umbria, fra il 2014 e il 2023 la Rohrwacher ha definito uno stile quanto mai peculiare, una sorta di realismo magico intimamente calato negli ambienti rurali di vari angoli d'Italia, raccogliendo molteplici attestati di stima grazie ai film Le meraviglie (Gran Premio della Giuria a Cannes), Lazzaro felice e La chimera. Se c'è una voce italiana che, in futuro, potrebbe essere citata con sempre maggior frequenza fra i nuovi maestri della scena mondiale, potenzialmente è proprio lei, come sembra indicare la prestigiosa vetrina del Festival di Cannes, dove finora i suoi lavori sono stati largamente apprezzati.
Chiamami col tuo nome e il fenomeno Guadagnino: l'italiano più amato nel mondo

Torniamo infine a Luca Guadagnino, l'unico italiano ad essere entrato nel canone del ventunesimo secolo. Già applaudito dalla critica anglo-americana nel 2009 con Io sono l'amore, negli scorsi anni Guadagnino è diventato l'alfiere di un cinema dalla forte impronta autoriale, ma che non si fa incasellare facilmente da etichette geografiche: A Bigger Splash è una produzione italo-francese, ma recitata in inglese; Suspiria, Bones and All e Queer sono co-produzioni fra Italia e USA, ambientate rispettivamente in Germania, negli Stati Uniti e in un Messico posticcio ricostruito a Cinecittà, e interpretate anch'esse da star internazionali; Challengers e l'imminente After the Hunt sono film inseriti nel meccanismo produttivo americano, finanziati dalla MGM e distribuiti negli USA da Amazon; mentre Chiamami col tuo nome è una co-produzione fra Italia, Stati Uniti e Francia, girata in territorio italiano ma recitata prevalentemente in inglese.

Ma non è solo questo spirito cosmopolita ad aver reso Guadagnino il regista italiano più quotato all'estero: si tratta anche dell'universalità delle storie che sceglie di portare sullo schermo, a partire proprio dall'intenso coming of age a sfondo omosessuale che, nel 2017, è entrato a pieno merito nel novero dei capolavori del cinema odierno. Premiata con l'Oscar per la sceneggiatura del veterano James Ivory e candidata anche come miglior film, la pellicola con Armie Hammer e un sensazionale Timothée Chalamet possiede la limpidità cristallina del racconto senza tempo: ha la classicità delle grandi storie d'amore ammantate di malinconia, da Breve incontro a Jules e Jim a Brokeback Mountain, ma è messa in scena con uno stile squisitamente contemporaneo e personalissimo, volto ad abbracciare lo spettatore ed immergerlo nel microcosmo emotivo dei suoi personaggi. Tutti ingredienti tali da renderlo il film italiano più amato del secolo.