Charlie Hebdo e The Interview: tra satira, terrorismo reale ed ipocrisie virtuali

Nel giro di qualche settimana, due casi diversi ma con vistose analogie hanno monopolizzato l'attenzione di pubblico e media. Ma siamo sicuri di avere un atteggiamento coerente nei confronti della libertà d'espressione?

Sono passati tre giorni dalla strage di Charlie Hebdo ma ovviamente niente adesso sembra più come prima. La Francia d'altronde ha subito il peggiore attentato terroristico degli ultimi cinquant'anni e giustamente un popolo intero adesso teme che questi tre giorni da incubo possano non finire qui. Ma parlare di tutto questo non è facile, soprattutto in un sito che si occupa di tutt'altro: un po' perché manca l'abitudine e la competenza, un po' perché è stato detto già tutto ovviamente, e soprattutto perché il rischio è quello di fare semplicemente della retorica.

Charlie Hebdo: Intouchables 2
Charlie Hebdo: Intouchables 2

D'altra parte però anche far finta di nulla è impossibile, soprattutto quando ragionandoci un po' su si può notare che in realtà tutto questo al nostro campo, il cinema, e soprattutto al mondo del web è legato eccome.

Poco più di tre anni fa, infatti, nel settembre del 2012, la redazione di Charlie Hebdo pubblicò un numero speciale della sua rivista in cui ironicamente si congratulava con Maometto per il debutto cinematografico ("E' nata una stella") e a cui dedicava perfino una copertina ispirata al film Quasi amici, in cui al posto dei due protagonisti (un uomo ricco paralizzato e un nero squattrinato che lo assiste) ci sono un musulmano e un ebreo nella stessa posa che dicono "Non potete prenderci in giro".

Se Maometto non va a cinema, il cinema va da Maometto

Il tutto partiva dal controverso "film" Innocence of Muslims, un cortometraggio/trailer anti-islamico distribuito un paio di mesi prima su YouTube, che causò proteste e attacchi in tutto il Medio Oriente finendo con il causare oltre 50 morti e centinaia di feriti. Gli stessi giornalisti francesi (e non) che in questi giorni hanno scritto editoriali ed articoli fiume spiegando che in questi giorni tutti noi siamo un po' Charlie (Je Suis Charlie) all'epoca attaccarono duramente il settimanale satirico definendo "una scelta poco intelligente" o "una provocazione inopportuna e irresponsabile" la volontà di gettare benzina sul fuoco su un argomento che già tanti problemi aveva causato. Ma Charb (Stéphane Charbonnier), che era l'editore e l'ideatore della copertina, rispose semplicemente che non era diverso da quello che facevano ogni settimana e avevano fatto per decenni.

Innocence of Muslims
Innocence of Muslims

Lo stesso avrebbe, con tutta probabilità, continuato a dire se fosse sopravvissuto all'attacco del 7 gennaio, perché degli uomini e le donne di Charlie Hebdo si può pensare tutto, ma non che non fossero coerenti e consapevoli di quello che stavano facendo, e del rischio che correvano nel farlo. [e, senza saperlo, pare che siamo stati profetici, visto che è di queste ore la notizia che un nuovo numero di Charlie Hebdo andrà in stampa nei prossimi giorni. Nonostante tutto.] Dodici di loro sono morti non per una battuta o una provocazione di troppo, ma perché credevano fortemente nel loro diritto alla libertà di parola. Così come vi credeva fortemente il regista olandese Theo Van Gogh che nel 2004 fu assassinato sempre a causa di un film anti Islam, il cortometraggio Submission.

"Disapprovo quello che dite, ma difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo"

The Interview: James Franco e Seth Rogen dialogano animatamente di fronte a Lizzy Caplan
The Interview: James Franco e Seth Rogen dialogano animatamente di fronte a Lizzy Caplan

D'altronde si tratta di un diritto che sempre più spesso diamo per scontato, soprattutto vivendo giornalmente in Rete dove tutto sembra permesso e tutto possibile, ma è sempre attraverso Internet che sempre con maggiore frequenza negli ultimi mesi abbiamo dovuto fare i conti con la realtà.
Cosa dire del caso The Interview? Fino a pochi giorni fa nessuno parlava d'altro, adesso, giustamente, l'attenzione dei media e del "popolo di Facebook" sembra essere rivolta altrove, ma è veramente poi così diverso il discorso? Per l'opera di Seth Rogen e James Franco ci sono state minacce (anonime) di ogni tipo, addirittura si è arrivato a togliere il film dalle sale perché si parlava di attacchi stile 11 settembre per i cinema che lo avessero proiettato. E tutto questo senza contare il Sony Hack e tutte le spiacevoli conseguenze che ci sono state in seguito all'invasione degli hackers nei server della Sony Pictures Entertainment.

Eppure quanti articoli o post avete visto in giro che dicevano "Io sono Seth" o "Io sono James"? Più volte invece avrete letto commenti del tipo "ma tu guarda se deve scoppiare la terza guerra mondiale per colpa di James Franco e di un film di merda". La qualità del film poi, tra l'altro ancor prima che venisse mostrato, sembra essere stata una discriminante significativa; forse il supporto di pubblico e media sarebbe stato ben diverso se si fosse trattato di un film di Malick o di Scorsese o di Von Trier. Anzi no, con Von Trier sarebbe stato ancora peggio, forse l'avrebbero accusato di voler segretamente creare un asse neonazista insieme al dittatore Kim Jong-un (d'altronde il padre pare fosse un cinefilo).

Ma davvero un film può arrogarsi il diritto di dire quello che vuole e come vuole solo se è bello? Perché The Interview un bel film certamente non lo è, ma non solo c'è molto di peggio in giro e soprattutto ci sono film ben più "offensivi" che semplicemente hanno scelto bersagli meno potenti o sensibili, ma ciò non toglie che tutti quanti andrebbero protetti a prescindere. Soprattutto dovrebbero farlo i media e chi, ogni giorno, usufruisce di una grande libertà come quella offerta dalla Rete.

Donne. In cerca di guai...

Emma Watson, ambasciatrice ONU
Emma Watson, ambasciatrice ONU

E invece ancora una volta sembrano essere proprio queste persone, i cybernauti 2.0, a dimenticarlo con estrema facilità.

Ricordate il famigerato Fappening, ovvero le centinaia di foto private (spesso nude) di tante celebrità tra cui Jennifer Lawrence o Kirsten Dunst?
Quello non sarà stato un atto di terrorismo ma il passo è breve, come è stato subito dimostrato qualche settimana dopo con le minacce ad Emma Watson, neo ambasciatrice dell'ONU, rea semplicemente di aver esposto un problema che le sta particolarmente a cuore, quello della disparità tra uomini e donne nella nostra società e anche nel suo campo, quello dell'industria cinematografica.
"Emma Watson tu sei la prossima". Poche parole, semplici, efficaci e dure, una minaccia ben precisa per fortuna poi non diventata realtà, ma che fa capire semplicemente quello che in tanti pensano di lei e di tutte le sue colleghe: potete interpretare le nostre ragazze dei sogni, potete essere oggetto del nostro desiderio sessuale, ma non avete alcun diritto alla privacy o di poter parlare di quello che realmente vi sta al cuore.

Jennifer Lawrence sul red carpet degli Oscar 2014
Jennifer Lawrence sul red carpet degli Oscar 2014

Oggi i redattori di Charlie Hebdo sono degli eroi, degli esempi da seguire per portare avanti un diritto fondamentale di qualsiasi uomo o donna. Ieri Rogen e Franco erano due imbecilli qualsiasi che volevano sfruttare la facile provocazione (e la conseguente pubblicità) per sopperire al poco talento. Se uno dei due attori fosse stato direttamente attaccato e non solo minacciato, probabilmente le parti sarebbero rovesciate.
Se un'attrice, come la Lawrence, dice che l'incredibile invasione di privacy che ha subito è un crimine a sfondo sessuale tutti sono pronti ad indicare per prima cosa le "sue colpe", l'aver scattato in prima battuta quelle foto che "in quanto personaggio pubblico non puoi fare". Se un'altra donna come Emma Watson viene minacciata, tutti sono pronti a nascondersi dietro la scusa dello scherzo o comunque a dire "se hai la coscienza a posto non hai nulla da temere". Ma se ovviamente le conseguenze per entrambe fossero state più gravi, ci saremmo ritrovati immediatamente con due nuove sante da beatificare istantaneamente sui social. In tempo reale.

Ipocrisie 2.0

La verità è che se fossimo tutti quanti un pochino più sinceri, ammetteremmo pacatamente che il 99% di noi non leggeva Charlie Hebdo e conosceva la rivista solo superficialmente (se pure la conosceva...), che The Interview sarebbe stato uno dei tanti film che avremmo a mala pena notato in un mercato cinematografico ricchissimo di prodotti provocatori e scorretti ma anche insignificanti e inoffensivi, e che di belle donne da sognare e ammirare è pieno il mondo. E che noi non siamo Charlie, non siamo Seth o James, e non siamo nemmeno Jennifer o Emma. E non vogliamo esserlo.
Ci piace essere chi siamo, seduti al sicuro dell'anonimato, una voce tra tante davanti al nostro monitor, pronti a giudicare in modo perentorio chiunque ci passi davanti. Come moderni imperatori che con un semplice pollice all'insù (mi piace) decidono le sorti di personaggi e personalità. Finché non arriva qualcuno che quel pollice lo usa per fare fuoco e davvero decide vita e morte di decine di persone, e noi ancora qui a scrivere, commentare, guardare, giudicare.
E' davvero questo che vogliamo diventare?