Due cose non riuscivo a togliermi dalla mente: la prima era Dominic, quando prima di morire mi disse "Sono inciampato", e l'altra eri tu. Tu che mi leggevi il Cantico dei Cantici...
Una giovane donna entra in una camera immersa nell'oscurità; accende una lampada e, guardando il letto, si accorge dei fori lasciati da un nugolo di proiettili. In quell'istante, dalla penombra emergono tre sicari, impegnati a dare la caccia al gangster Noodles; la donna, Eve, non sa rispondere alle loro domande e viene freddata da due colpi di pistola. La scena successiva, ambientata all'interno di un locale del Lower East Side, il quartiere ebraico di New York, si apre sul volto tumefatto e ricoperto di sangue del barista Moe Gelly, picchiato dai medesimi sicari affinché riveli il nascondiglio di Noodles.
È la violenza più feroce ad introdurci, con questo brutale incipit, al massimo capolavoro di Sergio Leone: C'era una volta in America. Ultimo capitolo dell'itinerario artistico del grande regista romano, al suo ritorno sugli schermi a tredici anni di distanza da Giù la testa, nonché ideale summa dello stile e della poetica alla base del suo cinema, C'era una volta in America ha rappresentato la sfida più imponente nel percorso professionale di Sergio Leone, ma anche il definitivo superamento dei canoni dello spaghetti western per confrontarsi con un nuovo genere di epopea, strettamente correlata all'immaginario dei gangster movie.
"Che hai fatto in tutti questi anni?"
Frutto di dieci mesi di riprese, con location da New York alla Florida, da Parigi agli studi di Cinecittà a Roma, e di quasi un anno di post-produzione, con un budget di trenta milioni di dollari, C'era una volta in America fu proiettato fuori concorso al Festival di Cannes 1984, in una versione di 229 minuti (ridotti rispetto ai 269 minuti del montaggio precedente). Tuttavia il produttore Arnon Milchan, incerto sulle sue potenzialità commerciali, decise di tagliare ulteriormente il film contro la volontà di Sergio Leone, distribuendo negli Stati Uniti un'edizione di appena 139 minuti, in cui tutte le sequenze erano state ricollocate in ordine cronologico; il risultato fu un fiasco disastroso, compensato però dall'enorme successo riportato in Europa, dove fu distribuita invece la versione montata da Nino Baragli insieme allo stesso Leone.
Approdato nelle sale italiane il 28 settembre 1984, C'era una volta in America sarebbe rimasto l'ultimo cimento cinematografico di Sergio Leone, scomparso il 30 aprile 1989, a sessant'anni d'età, a causa di un attacco cardiaco, mentre progettava una pellicola dedicata all'assedio di Leningrado. Nel 2012, il capolavoro di Leone è stato oggetto di un restauro che ha portato anche all'inserimento, nella nuova edizione del film, di sei scene inedite, inclusi un dialogo fra Noodles e la direttrice del cimitero di Riversdale (Louise Fletcher), l'incontro fra Noodles e la sua amante Eve (Darlanne Fluegel) e la sequenza a teatro con l'atto finale di Antonio e Cleopatra di William Shakespeare, per una durata complessiva di 255 minuti. Oggi, a trent'anni dalla sua uscita originaria, C'era una volta in America ha conservato intatta la straordinaria forza di un'opera in grado di rivoluzionare il linguaggio della settima arte, mediante un respiro epico ed una peculiarissima struttura che non cessano di catturare e di affascinare il pubblico ad ogni nuova visione.
"Il tempo non può scalfire"
Alla base della trama di C'era una volta in America vi è Mano armata, romanzo autobiografico edito nel 1952 dall'ex bandito di origine russa Harry Grey (pseudonimo di Herschel Goldberg), che offrì a Sergio Leone e ai suoi co-sceneggiatori lo spunto dal quale elaborare un racconto di formazione mirabilmente sospeso fra il crudo realismo tipico del genere di riferimento e squarci lirici che paiono sconfinare nei territori dell'onirico. L'elemento visionario, del resto, è una delle componenti inscindibili del film di Sergio Leone: non a caso la prima apparizione di David Aaronson, detto Noodles, interpretato da un magistrale Robert De Niro, avviene in una fumeria d'oppio, situata nel retro di un teatro delle ombre cinesi. Siamo dunque - doppiamente - nel regno dell'immaginifico, laddove la coscienza è obnubilata nell'intento di mettere a tacere gli spettri del rimorso, simboleggiati dal suono reiterato di un telefono che, senza apparente motivo, continuerà a squillare anche durante il flashback sull'esito dello scontro a fuoco fra i gangster e le forze dell'ordine. È il primo, spiazzante momento di raccordo di un tessuto narrativo quasi proustiano, costantemente affidato allo stream of consciousness di Noodles, protagonista di una personalissima "ricerca del tempo perduto". Tutto il film, pertanto, sarà costruito sull'oscillazione fra passato, presente e futuro, con repentini salti temporali fra il 1922, il 1932-33 e il 1968, secondo un meccanismo in cui l'analessi e la prolessi diventano non soltanto i veicoli per una completa aderenza fra il punto di vista dello spettatore e la focalizzazione di Noodles, ma anche gli strumenti di un'amara riflessione sul valore del tempo e della memoria.
"Io avrei puntato tutto su di te"
Il telefono, memento dell'inganno messo in atto da Noodles nei confronti dei propri compagni, in realtà con l'obiettivo di salvar loro la vita, proseguirà a squillare inesorabile nella mente del gangster, costretto ad una fuga precipitosa da New York. Poco più tardi, alla stazione ferroviaria, sarà un altro raccordo musicale a scandire il passaggio dal 1933 al 1968, con il ritorno di Noodles a New York: le note della colonna sonora di Ennio Morricone sfociano nella malinconica melodia di Yesterday dei Beatles, mentre la macchina da presa mostra in primo piano lo sguardo disilluso di un Robert De Niro ormai invecchiato, che osserva il proprio riflesso nella vetrata di uno specchio (un ennesimo esempio della coincidenza fra la prospettiva del pubblico e quella del personaggio principale). Infine, a restituire a Noodles i ricordi della sua adolescenza sarà un'ulteriore associazione mentale, questa volta di natura visiva: lo spioncino nella parete del bagno del bar dell'amico Moe (Burt Young), attraverso il quale il Noodles ragazzo (Scott Schutzman Tiler) osservava di soppiatto la coetanea Deborah (la dodicenne Jennifer Connelly, al suo esordio come attrice) danzare soave all'interno del magazzino del locale. È il primo tassello di una rievocazione vissuta con dolente nostalgia, in cui la dolcezza di quella "età dell'innocenza" non è intaccata dalla consapevolezza dei propri fallimenti. "Io avrei puntato tutto su di te", aveva confidato poco prima Moe a Noodles, per sentirsi rispondere, con pacata rassegnazione: "E avresti perso".
"Un amico tradito non ha altra scelta: deve sparare"
La cronaca del coming of age del giovane Noodles, del suo fatidico passaggio all'età adulta, è marcata dai due poli che finiranno per contrassegnare l'intera parabola del personaggio. Il primo è costituito dall'attrazione di Noodles per Deborah, oggetto di un desiderio inarrivabile, destinato ad una perpetua sublimazione. "Egli è tutta una delizia, ma sarà sempre un teppista da due soldi... perciò non sarà mai il mio diletto". In questa frase, pronunciata dalla ragazza sulle meravigliose note di Deborah's Theme (in assoluto fra i brani più intensi ed emozionanti mai ascoltati in un film), risiede tutto il senso dell'avvilimento di Noodles; il suo anelito ad un riscatto reso impossibile da una condizione esistenziale - la "puzza della strada" - a cui il protagonista non sarà capace di sottrarsi neppure in futuro. La storia d'amore in perenne divenire fra Deborah e Noodles trova il proprio contraltare nel rapporto fra quest'ultimo e Max Bercovicz (Rusty Jacobs): prima compagno di scorribande, di piccoli furti e di ingenui sogni da gangster, e dieci anni dopo, con il volto dell'attore James Woods, socio d'affari in un'attività criminale in cui la ricerca, da parte di Noodles, di un'agnognata serenità si scontrerà inevitabilmente con l'ambizione divorante di Max. Sergio Leone torna così ad esplorare e a sviluppare uno dei temi basilari del suo cinema, fin dalle origini: l'amicizia virile, asse portante della poetica del western, ma sempre sul punto di essere ribaltata negli opposti corrispettivi della rivalità e del tradimento, oltre che gravata dal peso della morte del piccolo Dominic (Noah Moazezi), ucciso in una rappresaglia dal famigerato Bugsy Siegel (James Russo).
"Nessuno t'amerà mai come ti ho amato io"
La figura di Deborah, eterea e quasi sfuggente, che da adulta assume le sembianze e la raffinata sensualità della ventiduenne Elizabeth McGovern (già nota al pubblico per i suoi ruoli in Gente comune e Ragtime), assurge pertanto ad emblema di un'utopia sentimentale che non potrà mai raggiungere una concreta realizzazione ("Tu mi terresti chiusa a chiave in una stanza e butteresti via la chiave..."). D'altra parte, nel cinema di Sergio Leone (un cinema al quale è stata imputata spesso, a torto o a ragione, una vena di misoginia) l'erotismo risulta inscindibile dalla violenza; e in C'era una volta in America, in misura ancora più evidente, ogni presunto atto d'amore è condannato ad essere ridotto a mera pulsione istintuale - le prime, meccaniche esperienze sessuali con la procace adolescente Peggy (Julie Cohen) - o ad un bestiale impulso di sopraffazione. Quel medesimo impulso che indurrà Noodles, nel corso della rapina ad una gioielleria, ad abusare della commessa Carol (Tuesday Weld), la quale diventerà poi la compagna di Max, succube dei suoi scatti d'ira a dispetto della sincerità del proprio sentimento. Ed è appunto tale dicotomia fra eros e violenza a rivelarsi il principio di negazione di un romanticismo fatalmente contaminato dalla miseria morale degli antieroi del film. In una delle sequenze più giustamente celebri di C'era una volta in America, girata nell'Hotel Excelsior del Lido di Venezia, Noodles e Deborah cenano in un lussuoso ristorante totalmente riservato a loro; nella scena seguente i due sono sdraiati sulla spiaggia, e Noodles recita a Deborah i versi del Cantico dei Cantici accompagnato dalla musica di Morricone. L'afflato lirico di questa sequenza, tuttavia, sarà infranto pochi minuti più tardi dal selvaggio stupro consumato da Noodles sul corpo inerme della ragazza, sul sedile posteriore di un'auto, poco prima che Deborah lo abbandoni per andare a cercare fortuna a Hollywood.
"È solo il mio modo di vedere le cose"
La lunga sezione conclusiva del film, vale a dire il piano narrativo corrispondente al flashforward del 1968, pone il sigillo sulla sconfitta di Noodles, ma al contempo lascia aperto uno spiraglio alla riacquisizione di un barlume di dignità etica alla quale, al contrario, il suo amico Max ha rinunciato per sempre, scegliendo di piegarsi ai compromessi necessari alla conquista di un potere ormai sull'orlo del tracollo. Se il viaggio di Noodles a New York (una pura allucinazione oppiacea, secondo l'esegesi proposta dalla cosiddetta "teoria del sogno", discutibile benché avvallata dallo stesso Leone) può essere considerato un estremo tentativo di redenzione, Max incarna invece l'anima più guasta e incancrenita di un paese che ha acconsentito a farsi governare da un manipolo di ex gangster e di funzionari corrotti. In tal senso, la vera espiazione di Noodles, ovvero la sua liberazione dai fantasmi di un passato che non ha mai smesso di tormentarlo, è rintracciabile nell'ultimo dialogo fra David Aaronson e il Senatore Christopher Bailey, al party nella villa del milionario. "È il tuo modo di vendicarti?", domanda Bailey all'uomo al quale aveva distrutto la vita; "No. È solo il mio modo di vedere le cose" replica Noodles, rifiutandosi di riconoscere nei tratti del Senatore determinato a farsi uccidere l'amico fraterno che aveva perduto trentacinque anni prima.
L'ultima sequenza, che ci riporta alla fumeria d'oppio nella notte della fine del Proibizionismo, suggella definitivamente il carattere ciclico di un impianto drammaturgico sinuoso e labirintico, in cui il sorriso enigmatico di Robert De Niro sintetizza con formidabile efficacia il cupio dissolvi del protagonista. Si tratta della suprema, irridente ambiguità di un'elegia rovesciata nell'epitaffio impietoso di una nazione e di un'epoca; un grandioso poema del disincanto, ma anche una monumentale epopea in nero che s'innalza e s'inabissa fra vertiginose altezze e rovinose cadute, dispensando di volta in volta struggimento e meraviglia come solo pochi, indimenticabili film sono stati e saranno in grado di fare.