Aprile-maggio 2007: chi scrive all'epoca aveva 20 anni e ricorda benissimo che, tra i banchi dell'università, cominciavano a diffondersi dei tormentoni riconoscibili: "dai, dai, dai", "apri tutto", "sei troppo italiano". Poi, a una festa in casa di compagni di corso, l'illuminazione: su Fox era appena arrivata una serie, Boris, che andava assolutamente vista. Recuperarla non fu facile: bisognava abbonarsi a Sky, andare a casa di amici e scroccare una visione, oppure trovare soluzioni alternative. Una cosa era certa: grazie al passaparola, la "fuori serie italiana" stava diventando un piccolo cult alla Sapienza di Roma.
All'inizio rimase confinata proprio in quella cerchia: idolatrata dagli studenti universitari della capitale, in particolare se appassionati di cinema e serie tv (allora ancora non completamente sdoganate e quasi motivo di vergogna, se si era incauti nel confessare questa passione), Boris ha faticato ad arrivare al grande pubblico. Le cose sono migliorate con il passaggio in chiaro su Cielo, due anni dopo, mentre fuori dai confini laziali la sua esistenza si è palesata soprattutto grazie all'arrivo nelle sale del film, Boris il film, distribuito nelle sale il primo aprile (ovviamente!) 2011.
A dieci anni di distanza dalla fine della terza e ultima stagione, Boris è ora arrivata su Netflix e sta vivendo una nuova giovinezza: "l'effetto booster" della piattaforma di streaming è noto, ma questa volta ci rende davvero felici. Moltissimi hanno scoperto il mondo di René Ferretti e soci soltanto adesso e, mentre loro si chiedono come avessero fatto a vivere fino a questo momento senza averlo mai visto, noi, che nel frattempo abbiamo cambiato decennio, siamo all'ennesimo rewatch e non possiamo non pensare a come non soltanto non sia invecchiata di un giorno, ma sia addirittura migliorata.
Boris: "userò gli occhi del cuore come fa un dottore cieco"
Ideata da Luca Manzi, Boris (che inizialmente avrebbe dovuto chiamarsi Sampras) è stata resa grande, prima di tutto dalla sigla di Elio e le storie tese, "Gli Occhi del Cuore", e poi dal magnifico trio di sceneggiatori formato da Giacomo Ciarrapico, Luca Vendruscolo e Mattia Torre, purtroppo scomparso prematuramente a luglio 2019. Non a caso il primo mobile, anzi, immobile, visto il loro rimanere costantemente su una barca in mezzo al mare lavorando il meno possibile, sono proprio i personaggi degli sceneggiatori (interpretati da Valerio Aprea, Massimo De Lorenzo e Andrea Sartoretti).
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Sì perché Boris è il nome del pesce rosso di René Ferretti (l'allora sconosciuto Francesco Pannofino, che, da attore teatrale e doppiatore, grazie alla serie si è imposto anche come volto), un tempo acclamato regista, ora autore di "fiction demmerda", come lui stesso le apostrofa. Pecunia non olet e anche gli artisti devono pagare l'affitto: al timone de Gli Occhi del Cuore, medical drama della Rete Ammiraglia, René si reca ogni giorno su un set che sembra un campo di battaglia. La segretaria di edizione, Itala (la meravigliosa Roberta Fiorentini, anche lei scomparsa nel 2019), è costantemente ubriaca; l'aiuto regista, Alfredo (Luca Amorosino), spaccia; il direttore della fotografia, Duccio Patanè (Ninni Bruschetta), è il primo cliente di Alfredo e la sua cifra stilistica consiste nell' "aprire tutto e smarmellare". Poi c'è l'elettricista Biascica (Paolo Calabresi) che è matto fracico pa' Roma. Sergio (Alberto Di Stasio), il produttore esecutivo, è uno squalo. Per non dire un criminale. Lopez (Antonio Catania), il delegato di rete, è totalmente asservito al potere: non importa che cosa si faccia, o come, l'importante è che ai piani alti siano contenti. Poi ci sono le star, ovviamente raccomandate, e tutti "cani maledetti": la diva Corinna (Carolina Crescentini) e il divo Stanis La Rochelle (Pietro Sermonti, qui maschera incredibile). E infine gli schiavi, gli unici che lavorano: Alessandro (Alessandro Tiberi), lo stagista di regia, appena arrivato e ingenuo; Lorenzo (Carlo Luca De Ruggieri), lo stagista di fotografia, che deve stare muto, e Arianna (Caterina Guzzanti), l'assistente alla regia, che si fa un mazzo così. In una parola: l'Italia.
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Un'altra tv dopo è stata possibile
Sarebbe facile parlare di come Boris abbia reso manifesti alcuni dei migliori talenti del panorama italiano: tra attori, registi e sceneggiatori, molti di loro si sono rivelati proprio grazie alla fuori serie. Ma questo potrebbe essere semplicemente stato un colpo di fortuna. Ciò che invece lo rende una pietra miliare della serialità televisiva è il fatto che, nonostante in tutti i suoi 42 episodi si dica il contrario, dopo Boris un'altra tv è stata davvero possibile.
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L'idea di criticare malcostume e contraddizioni della società italiana attraverso la fiction è stata un'intuizione geniale: la tv entra nelle nostre case ogni giorno, a tutte le ore, e ci ha abituati a un gusto fatto di luci troppo forti, musichette orecchiabili, preti e commissari che parlano del nulla con accenti improbabili. Dopo anni di prodotti scadenti e tutti uguali il nostro gusto si è uniformato e appiattito, il nostro senso critico è andato in letargo. In una tv dove è sempre più difficile distinguere tra intrattenimento e pubblicità, lo spettatore viene trattato come un ragazzino imbecille. Invece Boris ha avuto uno scatto d'orgoglio, una botta di coraggio che, a ripensarci adesso, è quasi commovente: tredici anni dopo siamo abituati ai premi di Gomorra e allo sfarzo di The Young Pope, ma per allora tutto questo era un miraggio.
È stato proprio grazie alla commedia, unica nel suo genere, di Fox che la mentalità è cambiata: è stato fatto un piccolo passo per una serie e un grande passo per la serialità italiana. Di lì a poco Sky avrebbe infatti dato carta bianca a Stefano Sollima per realizzare Romanzo criminale - La serie (2008). Lo stesso Sollima che, sei anni dopo, avrebbe realizzato, prendendo spunto dall'omonimo romanzo di Roberto Saviano, Gomorra - La Serie, innalzando finalmente la nostra televisione al livello delle produzioni internazionali. E nel 2016, proprio lui, Paolo Sorrentino, che aveva partecipato con grande auto-ironia a un episodio di Boris nel ruolo di se stesso, con The Young Pope ha definitivamente fuso cinema e televisione anche nel Bel paese. Tutto questo non sarebbe stato possibile senza Boris. O forse lo sarebbe stato, ma ci sarebbe voluto più tempo. Il piccolo pesce rosso di René Ferretti ha dato coraggio a tutti.
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Boris si è insinuata nel nostro modo di parlare (e di pensare)
Se una battuta continua a essere ripetuta a dieci anni dalla fine di una serie, vuol dire che ormai è entrata di diritto nell'uso quotidiano. E soltanto qualcosa che è in grado di sintetizzare un pensiero, un mondo, un paese in questo caso, riesce a insinuarsi in questo modo nella cultura popolare. Boris però ha fatto di più: quando diciamo frasi come "Kubrick è un incapace!", o "a noi la qualità c'ha rotto il cazzo: viva la merda!", o ancora "come Lino Banfi", in realtà stiamo citando l'estrema sintesi di un pensiero molto più articolato e vasto.
La scrittura di Boris è qualcosa che va studiato in modo certosino: non soltanto è frutto di una grande libertà creativa, ma racchiude in sé un'amara riflessione dello stato di questo paese. Un pensiero antichissimo, che risale direttamente agli Antichi Romani, i quali dicevano "panem et circenses". Lo stesso concetto ribadito anche dal principe di Salina in Il Gattopardo (1958) di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: "Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi". La serie Fox è ambientata su un set televisivo di fine anni 2000, ma potrebbe essere benissimo spostata nel Colosseo del 100 d.C., o nella Sicilia di fine '800: il risultato non cambia. È proprio questo che la rende universale e duratura: l'importante è che una volta vista i suoi insegnamenti ci rimangano bene impressi. Potrebbero tornare utili più di quanto non si pensi. Se non altro a sviluppare un pensiero critico, o comunque a vedere la realtà con occhi più consapevoli.
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È ancora il ritratto migliore dell'Italia degli ultimi 10 anni
Nonostante nel frattempo i social abbiano preso il sopravvento, la comunicazione sia in parte cambiata e la fruizione di serie tv e film sia completamente mutata, l'universalità di Boris non si può annullare. Anzi: in molti hanno fatto notare come la serie sia stata quasi "preveggente": quando Stanis dice che "i toscani hanno devastato questo paese" si riferisce ai comici, ma effettivamente uno di loro ha gravemente compromesso la Sinistra Italiana. Il concetto di "famoli sogna' 'sti italiani" è stato fatto proprio da alcuni politici, che affiancano il rosario alle frenetiche danze in locali di Milano Marittima. Il discorso sulla "locura" ha descritto alla perfezione il 2020: "questa è l'Italia del futuro: un Paese di musichette, mentre fuori c'è la morte."
Questo non perché gli autori siano parenti di Nostradamus, ma perché, da fini umanisti quali sono, hanno compreso ben presto la natura del popolo italiano: un misto del peggior conservatorismo tinto di simpatia, di colore, di paillettes. La triste realtà che Boris ha messo in luce è che "la locura" non è là fuori, ma è dentro ognuno di noi. E, tra una risata e l'altra, ci sbatte in faccia come, più o meno consapevolmente, ognuno di noi partecipa, da sempre, a questo stagno culturale e morale. Per quanto ci crediamo assolti, siamo per sempre coinvolti. Ed è per questo che, con il passare del tempo, Boris migliora: se quando si è più giovani questa terribile verità ci sembra superabile, una roba che è "tutta colpa delle generazioni precedenti", invecchiando ci rendiamo sempre più conto che non è così. La risposta è dentro di noi. E però è sbagliata.