Black Panther: Wakanda Forever, la recensione del nuovo cinecomic Marvel: un avvincente scontro tra eredità

La recensione di Black Panther: Wakanda Forever, un film tanto solido quanto ipertrofico che scardina con forza la formula MCU per imporsi in senso drammaturgico e impegnato senza rinunciare a una sana dose di spettacolarità.

Black Panther: Wakanda Forever, la recensione del nuovo cinecomic Marvel: un avvincente scontro tra eredità

Quando il cinema imita la vita è impossibile districarlo dalla realtà. È quanto accade in Black Panther: Wakanda Forever quando il sequel scritto e diretto da Ryan Coogler sceglie di fare i conti con la dolorosa dipartita di Chadwick Boseman, interprete di Re T'Challa e della Pantera Nera. A dire il vero, dopo un lungo e doveroso periodo di riscrittura, il film si è trasformato in altro rispetto ai piani originali, divenendo al cuore una profonda quanto sentita riflessione sulla morte e sull'eredità di un grande uomo, sovrano, protettore e supereroe. Il nuovo cinecomic Marvel esiste per testimoniare l'insostituibilità di Boseman - e per estensione di T'Challa - e il peso di emozioni e ricordi seminati nei cuori di amici e colleghi, impossibili da eradicare.

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Black Panther: Wakanda Forever, Angela Bassett, Danai Gurira in una scena

Come analizzeremo in questa recensione senza spoiler di Black Panther: Wakanda Forever, nessun uomo e dunque nessun interprete sarebbe stato semplicemente giusto per subentrare nei ruoli politici ed etici ricoperti da Boseman in quanto attore e personaggio. Si è così optato per un prodotto cinematografico che trattasse il quesito del lascito e del cambiamento mediante il processo d'elaborazione del lutto e anche di formazione, di ricerca della propria identità, e a questi discorsi si è legata con intelligenza una forte predominanza femminile. Perché se è vero che nessun uomo poteva sostituire Boseman come T'Challa o Pantera Nera, una delle fenomenali donne protagoniste del film invece sì.

Madre, sorella, amante, guerriera

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Black Panther: Wakanda Forever

Mostrato già nel trailer, l'incipit del film tratta della scomparsa di T'Challa. Si pone così il problema di un vuoto di protezione, inteso come la mancanza di un nuovo Black Panther, ruolo ormai impossibile da ereditare a causa delle azioni di Killmonger nel primo capitolo, quando salito al trono bruciò tutta l'erba a forma di cuore. Pur mancando questa figura di deterrenza, la nazione resta forte e unita sotto la guida della regina Ramonda (una magnifica Angela Bassett), intransigente nelle politiche d'embargo sul Vibranio, minerale che fa sempre più gola agli stati più potenti del mondo. Nasce da qui e da un'invenzione della new entry Riri Williams (Dominique Thorne, che rivedremo nell'annunciata Iron Heart) il pretesto narrativo che dà il La alla discesa in campo di un'altra potente nazione rimasta fino a quel momento nascosta e adesso pronta a rivendicare il proprio posto nel mondo, anche a costo d'inimicarsi l'intero Wakanda.

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Black Panther: Wakanda Forever, Letitia Wright in una scena

Prima di parlare di Namor e del suo ambizioso quanto originale adattamento cinematografico, è importante sottolineare quanto Wakanda Forever sia però un film a straordinaria guida femminile, che valorizza senza retorica i tanti ruoli delle donne in una società prettamente maschile. Nessun "buonismo" di sorta per i più critici e inspiegabilmente esasperati: Ryan Coogler scrive e inquadra questo parterre di campionesse con grande rispetto e capacità, tratteggiandole senza alcuna ridondanza formale sia nell'intimo delle emozioni che nella foga dell'azione - o nell'acume della strategia.

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Black Panther: Wakanda Forever, Angela Bassett in una scena

Come già detto, la Bassett regala una performance di grande tempra e cuore, regina fin dentro lo spirito e con alcuni dei migliori input interpretativi dell'intera storia del MCU. In lei c'è l'aspetto della madre e della sovrana, mentre nella Shuri della brava Letitia Wright quelli della sorella e della scienziata, sofferente perché incapace di salvare T'Challa nonostante tutto l'amore e il talento possibili. Ma poi ancora Okoye di Danai Gurira a rappresentare lo spirito guerriero, la brillante Nakia di Lupita Nyong'o come grande compagna fidata e Riri Williams a incarnare l'anima più ribelle e geniale delle nuove generazioni. Ma l'empowerment per Coogler non è una tematica da trattare, quanto più un naturale e sano sviluppo narrativo della storia posto in essere dalla tragedia. E in questo senso il film ci guadagna molto in spessore e ricchezza drammaturgica, non senza peccare in altro.

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Senza amore

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Black Panther: Wakanda Forever, Tenoch Huerta in una scena

Ryan Coogler è un autore che dal piccolo è stato subito lanciato nel grande. Con il primo e stupefacente Creed - Nato per combattere aveva mostrato un certo virtuosismo formale per la narrazione dell'azione (gli incontri in piano sequenza sono ancora un grande apice del suo cinema), ma sotto l'egida Marvel ha preferito concentrarsi su scrittura e worldbuilding per confezionare qualcosa di concettualmente importante. Nel sequel di Black Panther riabbraccia però quei virtuosismi iniziali, adoperandosi estremamente bene nella costruzione strutturale delle scene tanto dialogate quanto combattute. Può sfruttare un long shot in tensione per caricare il pathos prima di una fuga o sfruttare movimenti macchina - e digitale - per dare dinamismo e carattere a forsennati o caotici corpo a corpo.

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Black Panther: Wakanda Forever, Alex Livinalli, Mabel Cadena in una scena

È però sempre nel worldbuilding ideato col suo team che l'autore rivela grandezza, e il popolo di Talokan e la stessa rilettura precolombiana di Namor ne sono eccezionale esempio, con luci e ombre. Partendo letteralmente da queste seconde, bisogna ammettere che gli abissi dipinti da Coogler sono piuttosto bui, per quanto ricchi di personalità. Rispetto al circo di colori ed esagerazioni visive imbastito da James Wan in Aquaman, qui si è preferito un approccio più naturalistico, quindi scuro e ondulato in immersione. In termini di usi e costumi è tutto molto semplice e poco elaborato: i talokanini nuotano, pescano, parlano con ovattato riverbero. È voluto: parte dell'intreccio del film è correlato al depauperamento culturale da parte dei colonialisti (in contesto dei popoli del mondo emerso), e l'intera civiltà d'origine Maya di Namor ha sofferto e mutato per rifuggire e sopravvivere agli usurpatori spagnoli.

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Black Panther: Wakanda Forever, Tenoch Huerta in una sequenza

I problemi si impongono quando pure una durata importante (2 ore e 41 minuti) sembra non bastare per tratteggiare e approfondire nel migliore dei modi un'intera nazione nascosta, specie poi quando la stessa Talokan vive in queste opache profondità marittime dove anche un'inquadratura fissa non è sufficiente a immortalarne degnamente la bellezza, sprecandone un po' il potenziale visivo. Ca va sans dire, è una questione che riguarda una certa ipertrofia della parte centrale di Black Panther: Wakanda Forever, proprio quella dedicata allo sviluppo cinematografico di Talokan e quella curiosamente più frettolosa e strapazzata nell'intreccio.

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Black Panther: Wakanda Forever, Winston Duke in una scena

Ciò detto, esteticamente e fisicamente i talokaniani funzionano a meraviglia: super forti e resistenti, gli ultimi esseri viventi della terra da avere come nemici. È soprattutto Namor a convincere, e anche la sua rilettura come K'uk'ulkan è perfettamente azzeccata per soccombere all'effetto "copia" di Aquaman, visto e considerato poi che K'uk'ulkan era il "dio serpente alato" mesoamericano e che Namor ha di fatto ali ai piedi e il dono dell'immortalità. È pure una furia in battaglia, forte quanto Hulk e in grado di muoversi a velocità supersonica sott'acqua e in cielo, dove le sue schivate acrobatiche e gli attacchi mirati sono davvero una goduria per gli occhi, anche in termini d'ossatura della sequenza. Merito di un'interpretazione muscolare ed estremamente convincente di Tenoch Huerta, che incarna perfettamente il moto d'impietosa vendetta che dà origine al suo nome. Insomma, una scommessa pericolosa vinta con poche riserve.

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La vita

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Black Panther: Wakanda Forever, Angela Bassett in un'immagine

Prendete un regno in lutto e senza più super-protettore, comandato da una donna e per questo invaso - come fosse sintomi di debolezza - e un altro nascosto e rigoglioso con una sorta di divinità alla guida, che nel timore di essere scoperto e invaso a sua volta decide di giocare la carta dell'attacco preventivo. Ed entrambi con l'obiettivo cardine di difendere popolo e risorse da terzi. Ecco che si scatena un avvincente incontro-scontro culturale dove la questione ereditaria (vuoi concreta, vuoi morale) è il centro nevralgico del racconto, ciò che tutto o in parte muove - anche per Riri - è che definisce ed esalta un prodotto a sua volta erede diretto ma diverso del precedente, sempre meno stretto da una formula produttiva che appare ormai più come gabbia che come opportunità.

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Black Panther: Wakanda Forever - nel trailer appaiono due elmi

Black Panther: Wakanda Forever è uno dei cinecomic Marvel che più di altri non cerca di bilanciare nelle giuste percentuali algoritmiche dettate da K.E.V.I.N (qui la recensione di She-Hulk) i tanti pezzi del prodotto, soprattutto perché sa cosa vuole raccontare e come raccontarlo. Ad esempio, anche attraverso un utilizzo strepitoso ed esaltante delle musiche (del sempre eccelso Ludwig Goransson) e del sonoro, sia nel missaggio che nel montaggio, in senso diegetico oppure non alla narrazione. Per fare questo e molto altro il cinecomic sintetizza in un'opera di quasi tre ore un'idea embrionale che per essere sviluppata al meglio avrebbe forse richiesto due film e mezzo, unendo tesi e antitesi cinematografiche in un discorso conclusivo che dimostra come la fine di qualcosa sia solo l'inizio di qualcos'altro, in un ciclo di consapevolezza, rinascita e prosieguo che sa di vita.

Conclusioni

Black Panther: Wakanda Forever si dimostra un titolo dal forte impianto drammaturgico e concettuale, dedicato tanto alla perdita quanto al lascito di T'Challa come sovrano, figlio, fratello, supereroe e compagno. Come detto in recensione, il sequel scritto e diretto da Ryan Coogler vive di una profondità d'intenti evidente tradotta magnificamente bene da tutti gli interpreti in campo, da una superlativa Angela Bassett fino a Tenoch Huerta nei panni ben abitati di Namor. Dovendo e volendo al contempo essere intimo, spettacolare e introduttivo con anche un'intera civiltà da introdurre, l'ipertrofia cinematografica risulta essere un'arma a doppio taglio sia in chiave visiva che contenutistica, facendo sicuramente bene sulla lunga distanza ma con diversi inciampi sulla breve. In conclusione, un degno e importante sequel.

Movieplayer.it
3.5/5
Voto medio
4.4/5

Perché ci piace

  • Le performance femminili, esclusa nessuna.
  • La regia versatile di Coogler, espressionistica nell'intimità e incalzante nell'azione.
  • La rilettura mesoamericana di Namor è un grande sì, così come Tenoch Huerta nel ruolo.
  • Tutto ciò che riguarda musiche e sonoro: assolutamente entusiasmante.
  • Si parla d'eredità, politica, risorse, lutto, colonialismo...

Cosa non va

  • ... non sempre perfettamente a causa dell'ipertrofia contenutistica.
  • Talokan non è così d'impatto come avrebbe potuto essere.
  • La scena post-credit sembra quasi una supercazzola dopo 2 ore e 41 di film.