Tu e io ci siamo piaciuti fin dal primo momento. Tu sei solo stasera, e sono sola anch'io... e siamo tutti e due adulti.
La sottesa equivalenza fra passione e minaccia, uno degli elementi-cardine del noir classico, riecheggia in ogni battuta della conversazione fra il consulente legale Dan Gallagher, in procinto di trascorrere un fine settimana lontano dalla famiglia, e l'editor Alex Forrest, che dopo aver accettato il suo repentino invito a cena ammette di aver annullato i propri impegni per la serata e si informa sul tasso di 'discrezione' dell'uomo. Fuori dal locale sta calando il buio e le strade di Manhattan sono battute da una pioggia torrenziale: altro presagio inequivocabile del fatto che l'incontro fra i due, dietro una patina di fasulla innocenza ("Mi pare che non c'è niente di male ad andare a cena con qualcuno", si giustifica Dan), già prelude a un'imminente tempesta. Ma ormai il dado è stato lanciato, e Dan non esita a tastare il terreno ("Ci sarà un seguito?", domanda maliziosamente subito dopo), pronto a cogliere l'occasione che gli si è presentata.
Nella cornice di un setting inequivocabilmente anni Ottanta, Attrazione fatale si apre dunque come un racconto sul modello de La fiamma del peccato o Il postino suona sempre due volte: l'ombra seducente dell'adulterio, l'eros che si accende innanzitutto nei dialoghi, un protagonista maschile bendisposto ad abbandonarsi ai propri impulsi di trasgressione e un'intraprendente femme fatale che stuzzica abilmente le sue fantasie. Ma l'evoluzione del neo-noir, a sette anni di distanza dal sublime Brivido caldo di Lawrence Kasdan, stavolta conduce dritto nei territori del thriller: al torrido weekend fra Dan e Alex, consumato fra esplosioni di sesso sfrenato e il languido struggimento della Madama Butterfly di Puccini, segue infatti l'inizio di un incubo che metterà a repentaglio l'intera esistenza di Dan, colpevole di aver infranto la fedeltà coniugale, ma anche della distratta insensibilità nei confronti di Alex.
Il thriller da record di Adrian Lyne
Dan Gallagher, che ha il piglio carismatico e il volto rassicurante di Michael Douglas, è un personaggio che invita all'identificazione, o quantomeno all'empatia: a maggior ragione considerando che, nel film di Adrian Lyne, le sue bugie e il suo comportamento discutibile sembrano perdere peso da quando l'uomo, con la progressione della furia di Alex, comincia a trasformarsi in vittima. È forse uno dei motivi per cui Attrazione fatale riesce ad accendere una scintilla particolare nel pubblico, innescando un meccanismo che dal campo del cinema si estenderà a quello della sociologia e della cultura di massa. Pochissime pellicole, del resto, segnano (e simboleggiano) quel decennio, e il suo immaginario, con la forza di Attrazione fatale, rivisitazione di un copione firmato nel 1980 da James Dearden per il mediometraggio televisivo Diversion e ampliato dallo stesso autore (in collaborazione con Nicholas Meyer) per la Paramount, che ne intuisce il potenziale commerciale.
E tuttavia non era facile prevedere le proporzioni di un fenomeno di tale portata, o la sua capacità di intercettare tensioni e umori dell'epoca. Affidato alle mani sapienti del regista inglese Adrian Lyne, che dopo il fortunatissimo Flashdance si era dedicato proprio alla messa in scena dell'erotismo con 9 settimane e ½ (un cult immediato in Europa, ma semi-ignorato in America), Attrazione fatale debutta negli USA il 18 settembre 1987 e, complice un passaparola formidabile, occupa per otto settimane il primo posto della classifica del box-office. A livello mondiale gli incassi raggiungeranno quota trecentoventi milioni di dollari, con oltre ottanta milioni di spettatori, consacrando il thriller di Lyne come il maggior successo del 1987. Perfino l'Academy, di solito refrattaria a opere di genere e a titoli controversi, sarà costretta a prendere nota, ricompensando Attrazione fatale con sei nomination agli Oscar, tra cui miglior film, miglior regia e miglior attrice per Glenn Close.
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L'everyman di Michael Douglas e la virago di Glenn Close
Un tale responso, sebbene sorprendente, è tutt'altro che illogico o casuale. Attrazione fatale non sarà il film più acclamato dell'anno (primato che va a L'ultimo imperatore), né il più celebrato da critici e cinefili (come Full Metal Jacket) e neppure il più 'amato' in senso stretto (almeno non quanto Good Morning, Vietnam, Stregata dalla luna o Dirty Dancing), ma è senz'altro il più discusso, quello in grado di colpire un nervo scoperto della coscienza collettiva. La visione dell'eros come esperienza conturbante e come fonte di pericolo non è certo una novità negli anni Ottanta (basti tornare al succitato Brivido caldo o all'ancor più radicale Cruising di William Friedkin), ma la fugace relazione clandestina fra Dan e Alex rientra in una 'normalità' che evidentemente tocca da vicino buona parte degli spettatori, per i quali il personaggio di Michael Douglas aderisce appieno a criteri di rispettabilità - una famiglia amorevole, una posizione professionale prestigiosa - che lo rendono ben lontano dal tipico antieroe.
Di contro, Attrazione fatale offre una netta dicotomia nella raffigurazione del femminile, declinato secondo due archetipi opposti. Da un lato la moglie di Dan, la Beth di Anne Archer: affettuosa, materna, di una bellezza delicata e composta, perfetta incarnazione di "angelo del focolare". Dall'altro Alex Forrest, emblema di una femminilità più impetuosa e ribelle (a partire dalla 'mascolinità' del nome): una virago tanto sessualmente audace, quanto psicologicamente fragile, resa indimenticabile dall'intensità tenebrosa di una Glenn Close in stato di grazia. Il ruolo di Alex scandisce non solo una delle vette nella carriera dell'attrice quarantenne, ma ne rivela per la prima volta il talento insuperabile nelle parti da villainess, aprendo la strada a una galleria di ritratti di donne determinate e feroci a cui la Close avrebbe dato vita da lì in poi. Ed è la sua Alex, non a caso, a catalizzare i dibattiti - e le polemiche - suscitati da un film che sarà tacciato spesso di misoginia.
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Un finale riscritto dal pubblico
È un discorso dettagliato e complesso, influenzato al tempo dalle diverse prospettive sul conservatorismo e la sessuofobia dell'America reaganiana, di cui il thriller di Adrian Lyne è a suo modo un inevitabile specchio. In rari casi, del resto, il rapporto fra una pellicola e il suo pubblico di riferimento è stato addirittura 'simbiotico', tanto da far sì che il secondo influisse in maniera diretta sull'opera medesima. In origine, infatti, la chiusura della trama era legata al grave disturbo borderline di Alex, la quale arrivava a uccidersi allo scopo di far ricadere la colpa su Dan: un epilogo quasi chabroliano (oggi disponibile fra i contenuti extra delle edizioni home-video), che però non riscuote troppo gradimento durante i test screening. Alla Paramount, pertanto, ricorrono a una soluzione drastica: scrivere un nuovo finale, più 'spettacolare', richiamando cast e troupe sul set a riprese già ultimate. Un finale in cui Alex, anziché soccombere nella spirale della propria follia, assume i connotati della gorgone decisa a distruggere del tutto Dan e la sua famiglia.
Si tratta di una conclusione dal grande impatto emotivo: magari meno rispettosa della natura del personaggio ("Stavo interpretando un essere umano fragile, molto specifico e profondamente disturbato, che avevo finito per amare", dichiarerà Glenn Close), ma di innegabile potenza narrativa e metaforica. Ed è appunto sul piano metaforico che Attrazione fatale risulta straordinariamente incisivo, laddove fa prendere corpo a paure e ossessioni che minano dall'interno l'ideale borghese dell'American way of life. È anche per questo che Alex, nel momento in cui si materializza alle spalle di Beth brandendo un coltello da cucina, assurge quasi a proiezione mostruosa dell'inconscio di Dan, a manifestazione del suo senso di colpa. E se, negli anni a venire, Michael Douglas legherà il proprio nome al filone dei thriller erotici (con Basic Instinct di Paul Verhoeven e Rivelazioni di Barry Levinson), Glenn Close contribuirà a introdurre nell'idioma inglese l'espressione bunny boiler, a ennesima riprova di aver consegnato all'iconografia del cinema una delle più memorabili villainess di sempre.
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