Apologia di The Village

Se non è un horror, se non è un thriller, se non è un'allegoria, che cosa è dunque The Village? A questa domanda si vuol tentare di rispondere, facendo appello all'indulgenza del lettore verso quello che è solo un punto di vista fra tanti e non si propone di essere la definitiva chiave di lettura.

A ventotto anni M. Night Shyamalan si impose a tutto il mondo con un thriller/horror atipico, etereo e morboso, lucido e commovente: Il sesto senso; datato 1999, è ricordato come uno dei film più interessanti del decennio passato.
Non era il primo film del regista e sceneggiatore indiano, americano d'elezione, ma funzionò come un debutto folgorante. Il genere di incredibile debutto che condiziona la carriera, che da quel momento è una strada in salita, un battaglia con sé stesso, con il pubblico, con la critica, nel tentativo di confermarsi, di crescere invece di involversi, di conquistarsi un futuro luminoso. Shyamalan alla pressione reagì facendo un film che ricordava il suo Sesto senso soltanto per la struttura (una sorta di quest interiore che s'illumina di significato grazie ad un colpo di scena in dirittura d'arrivo) e per il volto del protagonista, Bruce Willis.
Ma ad Unbreakable - Il predestinato mancavano le emozioni, la tensione e l'empatia del predecessore, e non inaspettatamente fallì al botteghino. Restavano tuttavia la maestria registica e il coraggioso piglio creativo di Shyamalan. Con Signs il regista ritrova un tema più autentico e umanamente profondo, e i cerchi nel grano e gli alieni sono solo una scusa per esplorarlo. Il film con Mel Gibson, atmosferico e teso, nonché ancor più spiazzante, non è amato dalla critica ma si difende al box office (grazie al richiamo dei marziani?).

Anche la recente fatica The Village si presenta in maniera accattivante per il grande pubblico: un villaggio isolato, atmosfere cupe, boschi abitati da misteriose creature.
Ma anche The Village non è affatto quello che sembra, e a la rivelazione di ciò che il film è in realtà non piace gli americani: The Village incassa oltre cinquanta milioni di dollari nel primo week end di programmazione, ma crolla a venti la settimana successiva e non si riprende più. Le reazioni sono forti e chi salva il film lo fa solo per la splendida fotografia di Roger Deakins; c'è chi ne riconosce l'interessante valore metaforico, all'interno di una pellicola non riuscita - fallimentare, per chi non ama indorare la pillola; e c'è anche chi riconosce che il film è girato anche meglio dei predecessori, ma scritto in maniera pedestre. Siamo sempre lì: Shyamalan, cui, grazie al successo de Il sesto senso sono state date molte possibilità di dimostrare di non essere una meteora, ha deluso ancora. E ora che The Village è uscito anche da noi, l'accoglienza è grosso modo la stessa. Il pubblico arriva in sala pronto a un horror raggelante e si trova di fronte tutt'altro. La critica riconosce che questo altro è qualcosa di stimolante, ma cinematograficamente scadente. La solita formula ormai stantia, il solito colpo di scena, il tutto didascalicamente allegorico. Tuttavia, non si trova un accordo nel dare un'intepretazione univoca a questa allegoria: non si riesce a ridurre The Village a un pretenzioso naufragio a tesi. Lo si critica ma nel farlo lo si dibatte, dimostrando che, dopotutto, il film un segno l'ha lasciato.

Se non è un horror, se non è un thriller, se non è un'allegoria, che cosa è dunque The Village?
A questa domanda si vuol tentare di rispondere, facendo appello all'indulgenza del lettore verso quello che è solo un punto di vista fra tanti e non si propone di essere la definitiva chiave di lettura.

Innanzitutto The Village è il film più sentito e maturo di M. Night Shyamalan; in esso convergono le tematiche che gli sono più care: l'amore - investigato nella variante coniugale e in quella genitore-figlio ne Il sesto senso, ma anche in Signs, la fede - tema importante in Unbreakable, centrale in Signs e il dilemma etico bene/male, toccato in tutte le pellicole del regista indiano, ma che qui trova la sua più lucida e profonda trattazione.

E' anche il primo film corale del giovane autore: le famiglie che erano al centro delle tre precedenti pellicole si sono espanse diventando una piccola comunità segregata. I bambini - così centrali alla poetica shyamalaiana - sono cresciuti e scalpitano per uscire dal claustrofobico microcosmo che il regista e i genitori hanno costruito attorno a loro. Joaquin Phoenix è Haley Joel Osment diventato grande, e ora non ha più paura, è pronto a conquistarsi un futuro di libertà sfidando le creature misteriose con cui i padri hanno stretto un patto di reciproca indifferenza: hanno promesso di non sconfinare nei boschi, e in cambio gli esseri non entrano nel villaggio per perpetrarvi i propri crimini. Ma Lucius (il personaggio interpretato da Phoenix) si chiede se davvero di crimini si tratta, e se davvero la paura è l'unico modo possibile di coabitare.
Il ragazzo serio e silenzioso implora gli anziani di lasciargli attraversare i boschi per raggiungere la città, lo chiede più volte, disperato ed ostinato. Ed ogni volta il diniego non ci viene rivelato. Shyamalan non ci mostra la comunità che frustra il suo figlio più impavido, per pudore, per vezzo? No, è come quando Malcom Crowe, ne Il sesto senso, trova ripetutamente chiusa la porta dello scantinato e si fruga le tasche in cerca della chiave: è il segnale dell'inganno.
Lucius soffre ma non tradisce il villaggio, e quando senza volerlo causa un'incursione delle creature è prostrato dal senso di colpa. Ama e vuole il bene del villaggio e dei suoi abitanti e soprattutto di Ivy Walker, la figlia minore del leader della comunità. Anche il suo amore è silenzioso e solo Ivy, percettiva come lui, lo avverte.

Shyamalan costruisce il suo romance su due ottime interpretazioni - compassato e tenero Phoenix, delicata e impetuosa Bryce Dallas Howard - e su una manciata di scene splendide. Abbiamo detto che The Village non è un thriller, ma questo non vuol dire che manchi di tensione: la scena in cui la creatura si avvicina a casa Walker e Lucius la osserva lascia senza fiato (grazie anche alle musiche di Newton Howard, ricche di pathos ma mai fuori luogo) l'immagine di Ivy sulla porta con la mano protesa è poetica ed eloquente, tanto che potrebbe rappresentare la Fede shyamalaniana. La scena della dichiarazione d'amore di Lucius è un altro gioiello di regia e sceneggiatura: la saggezza, l'amorevole ma contegnosa premura con cui Lucius spiazza la fiera Ivy, quella lacrima che brilla lunare nel buio del patio, la macchina da presa che scivola lontano dal loro bacio...
E' così che Shyamalan ci cattura alla sua causa, facendoci innamorare dei suoi innamorati; l'intento è così limpido che è difficile spiegarsi le impressioni di chi ha visto nel film un arido (e inefficace) trattato sociologico.

E' il momento in cui il regista indiano ci ha nelle sue mani: è il momento del vero colpo di scena di The Village. A toglierci la terra da sotto ai piedi e a rendere straordinaria questa sceneggiatura non è il twist-in-the-end, non sono le rivelazioni sul passato degli anziani, ma la svolta che prende la trama a questo punto, con il dolce e infantile Noah che attenta alla vita dell'amico con cui è cresciuto, con l'eroe improvvisamente fuori gioco e l'eroina che raccoglie su di sé il peso della quest salvifica. E al di là delle interpretazioni e delle chiavi di lettura, su cui comunque ritorneremo, questo è il momento in cui il film dimostra la sua valenza emozionale e la sua solidità narrativa.

L'aggressione di Lucius, naturalmente, getta nuova luce sul monologo di August Nicholson, il personaggio di Brendan Gleeson, all'inizio del film: "Non si può sfuggire al dolore, il dolore è parte della vita. Ora lo sappiamo." Alla morte per malattia del piccolo Nicholson si aggiunge il folle gesto di Noah. Una "punizione" della comunità che si è isolata per schermirsi dal dolore e dalla violenza? La prova del fatto che non solo al dolore non si può sfuggire, ma anche al crimine, che è insito alla natura umana così come Noah è parte della comunità? Per quanto intepretazioni di questo genere siano assolutamente naturali, risulta difficile vedervi un'assoluta condanna della vita del villaggio e della scelta degli anziani. Il guru Edward Walker (lo straordinario William Hurt) è un personaggio che siamo indotti ad ammirare. E' un uomo che ha offerto agli amici un rifugio dal male, che ha scelto di crescere i figli proteggendoli dalle contraddizioni, dai condizionamenti, dai pericoli del mondo di oggi - anche se questo significava ingannarli per costringerli a non lasciare la comunità. Ma la sua non è volontà di controllo, paternalismo manipolativo ed egoistico come quello del personaggio di Ed Harris in The Truman Show. La "colpa" - se così la vogliamo chiamare - di Walker è quella di tutti gli eroi di Shyamalan, e cioè avere paura; pensiamo all'ammirazione con cui parla a Lucius affranto alla riunione dopo l'"attacco", lodando il suo coraggio mentre il ragazzo si aspetta parole di condanna: "Tu hai una forza d'animo che a me non è dato avere" (ma l'originale ha "You are fearless", sei senza paura).

E' solo nel finale che l'autentica portata della visione si svela: gli anziani hanno capito che il dolore è inevitabile perché fa parte della vita; hanno capito che la loro soluzione non serve nemmeno a proteggersi dal crimine; sanno che non potranno trattenere i giovani, che la loro "copertura" non funzionerà per sempre... eppure scelgono di continuare. L'idialliaco rifugio nei boschi, l'asilo autarchico lontano dai rischi del progresso è in realtà simbolo dell'intera società umana. Noi vediamo la falsità e la debolezza dei principi in base ai quali viviamo, percepiamo la labilità e l'arbitrarietà del confine tra il bene e il male, eppure l'insegniamo ai nostri figli. Viviamo ingannando loro e noi stessi, perché in realtà non esiste alternativa, quel mondo al di fuori del villaggio, al di fuori delle certezze e delle convenzioni, fa troppa paura.

Se dunque The Village offre numerosissimi spunti di riflessione, un'intepretazione troppo ristretta ed univoca (come la metafora sull'America post-9/11, proposta da più parti) rischia di non rendergli giustizia, soprattutto perché significa attribuire all'autore una preciso intento politico/morale. Shyamalan è narratore e non si pone come analista politico, sociologo o antropologo. E The Village non è un trattato sociologico né un manifesto politico; non è un thriller e non è un horror. Forse è solo una fiaba, ma appartiene a quel genere di fiabe intelligenti che non giudicano la realtà ma si limitano a rispecchiarla.