Recensione A Private War: l’inviato di guerra, un lavoro unico

La recensione di A Private War: il film di Matthew Heineman con Rosamund Pike sulla reporter di guerra Marie Colvin, colpisce ma non tocca nel profondo.

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A Private War: Rosamund Pike e Jamie Dornan in un momento del film

Si apre con una ripresa aerea, realizzata probabilmente con un drone, A Private War, il film di Matthew Heineman con Rosamund Pike, dedicato alla vita della famosa reporter di guerra Marie Colvin, presentato all'ultima Festa del Cinema di Roma. È una di quelle riprese che vediamo spesso per documentare la guerra in Siria. È una di quelle riprese impressionanti, che ci mostrano intere città rase al suolo, con palazzi completamente sventrati, che sembrano quinte di cartapesta, scheletri privi di ogni organo, ogni pelle, ogni vita. Se fa impressione la guerra vista così da fuori, da lontano, non immaginiamo cosa dev'essere viverla dal dl dentro, come fanno i reporter di guerra, persone fuori dal comune, mossi da ideali e da motivazioni uniche. Questo film prova a spiegarcele, raccontando la vita di una di loro, Marie Colvin, che lavorò per il settimanale britannico The Sunday Times dal 1985 al 2012.

La storia inizia nel 2001, con un viaggio nello Sri Lanka, dove, colpita dalle schegge di una bomba, perde un occhio. Lo coprirà con una benda. Diventerà il suo look, la sua immagine di battaglia, il biglietto da visita di una piratessa senza paura. La seguiremo ancora in Iraq, in Libia. E nella tremenda situazione in Siria. Nel cast ci sono anche Jamie Dornan e Stanley Tucci, rispettivamente nel ruolo di un fotografo, e di una delle relazioni sentimentali della protagonista.

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A Private War: Rosamund Pike in una scena del film

In guerra la morte è sempre accanto a te

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Quello dell'inviato di guerra è un lavoro unico, speciale, qualcosa di incredibile. "Ti ritrovi in posti dove sai che puoi essere ucciso, o qualcuno può essere ucciso". In questo lavoro la morte è sempre con te, accanto a te. Può prenderti in un attimo. E, se non ti prende, prende quelli vicino, ne prende a piene mani, ti circonda, penetra l'aria che respiri. Si tratta di scovare le piste, seguirle, anche se significa prendere il sentiero meno battuto, quello meno sicuro, perché meno è sicuro più ci sarà qualcosa da raccontare. Significa seguire l'istinto, andare senza rete, anche dietro le linee nemiche.

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Come The Hurt Locker

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A Private War: Rosamund Pike in un'immagine del film

È un lavoro che non può non avere conseguenze. Che si chiamano disturbo da stress post traumatico. E che portano a visioni, incubi, attacchi di panico. Voci e rumori che ti ronzano in testa, e che non se ne vanno fino a che non ti scoli un'intera bottiglia di vodka. A Private War racconta tutto questo, e sono proprio questi momenti di panico a spezzare un racconto che tutto sommato procede in maniera piuttosto classica, lineare, calligrafica. Per poi assumere all'improvviso un montaggio più serrato, tachicardico, un attacco di panico per immagini. L'inviato di guerra è un po' come l'artificiere di The Hurt Locker, uno dei migliori film di guerra degli ultimi anni: il conflitto bellico per lui è una droga, non riesce a stare per più di un determinato lasso di tempo senza tornare in prima linea.

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Rosamund Pike: dopo Gone Girl e Hostiles è una certezza

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A Private War vive tutto sul corpo slanciato di Rosamund Pike, un'attrice che non finisce di sorprenderci. Anni fa l'avevamo catalogata subito come l'ennesima Bond Girl "One Hit Wonder", bellissima ma capace di durare una sola stagione come certe canzoni. Ha continuato invece a stupirci man mano che procedeva nel suo percorso, fino ad arrivare alle strepitose prestazioni di L'amore bugiardo - Gone Girl e soprattutto di Hostiles - Ostili, in cui faceva crescere dentro di sé il dolore per poi trattenerlo. Qui indurisce i suoi tratti, indurisce la sua voce, involgarisce leggermente la sua figura, indossa i capelli rossi arruffati della Colvin. Anche qui il suo lavoro ha a che fare con il fatto di interiorizzare molte emozioni - la paura, il dolore, lo sconcerto, l'orrore, la compassione - per trattenerle in un perenne stato di allerta.

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Quella diretta con la CNN

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Con tutta questa materia, si dovrebbe concludere la visione del film con le budella attorcigliate, e con le lacrime agli occhi. Invece tutto questo non accade. Il film lascia piuttosto freddi, distanti. Colpa probabilmente di una messinscena un po' di maniera, un po' patinata, e di una sceneggiatura che non approfondisce come dovrebbe la psicologia della protagonista. Lo fa alla fine, in quella struggente scena in cui ricostruisce una diretta, via Skype, con la CNN, fatta da uno stabile abbandonato, sotto le bombe, in Siria. È un po' tardi per entrare in empatia con la protagonista. Ma è lì che ci spiega le sue ragioni. Fa questo lavoro perché spera che, raccontando cosa succede, possa muoversi qualcosa, le cose possono cambiare. Perché in fondo ha fede nella natura umana. Era il 2012, siamo nel 2018. E la guerra in Siria va avanti.

Movieplayer.it

2.5/5