Grazie, signora Streep
Negli ultimi anni, in parallelo con la diffusione del genere documentario, è cresciuto l'interesse anche nei confronti del film biografico, un particolare filone che probabilmente non è mai riuscito a sbancare ai botteghini, ma che ha spesso ottenuto buoni consensi tra alcune fasce di pubblico. Sarà forse il fatto che viviamo attualmente in un'epoca incerta dal punto di vista economico e politico (cosa che magari spinge la gente a cercare delle certezze nei modelli di riferimento del passato); in ogni caso di recente vi è stata una proliferazione di biopic cinematografici e televisivi incentrati sui grandi leader del Novecento, immortalati spesso attraverso punti di vista e chiavi di lettura molto differenti. Dal dittico mitopoietico di Steven Soderbergh su Che Guevara (Che - L'argentino e Che - Guerriglia), al caustico e impietoso W. di Oliver Stone, passando per il rinnovato interesse televisivo sorto per la dinastia de I Kennedy, fino al grottesco ritratto di Giulio Andreotti realizzato da Paolo Sorrentino ne Il divo. Curiosamente nelle ultime stagioni è stata soprattutto la Gran Bretagna a riproporre su grande schermo le storie dei suoi personaggi più iconici, dalla regina Elisabetta II incarnata con maestria da Helen Mirren in The Queen, fino all'impacciato re Giorgio VI reso impeccabilmente dal premio Oscar Colin Firth ne Il discorso del re. Proprio mentre esce nelle sale la biografia di un'altra figura controversa, il J. Edgar di Clint Eastwood, il cinema britannico completa la sua galleria di potenti dedicandosi a una figura che suscita ancora oggi focosi e polemici dibattiti, The Iron Lady - Margaret Thatcher, che nel bene o nel male con la sua unica personalità ha mutato per sempre lo scenario della politica internazionale.
L'impresa di realizzare un biopic su un personaggio decisamente spigoloso e poco empatico come quello della "Lady di ferro" è stata accolta con coraggio dalla regista Phyllida Lloyd che, dopo il fortunatissimo musical Mamma Mia!, ha voluto di nuovo al suo fianco la pluripremiata Meryl Streep. Scelta, questa, quasi obbligata (nonostante le origini statunitensi dell'attrice che avevano inizialmente fatto storcere il naso ad alcuni puristi), dal momento che poche altre interpreti al mondo sarebbero state in grado di affrontare una sfida recitativa così imponente, riuscendo a conferire calore e umanità alla figura dell'ex primo ministro inglese senza tuttavia tradirne l'essenza storica.
In ogni caso approcciarsi a una personalità larger than life come quella del primo Capo del governo britannico donna incuterebbe reverenza e timore a chiunque. In questo senso la sceneggiatrice Abi Morgan (anche co-autrice dell'apprezzato Shame) evita il rischio di un'impostazione troppo classica e ingessata ricorrendo a un espediente ingegnoso: la vita della protagonista viene infatti raccontata attraverso i flashback di una Thatcher anziana e lontanissima dalla gloria e dal potere del passato. Ormai vittima di allucinazioni, continua ad avere visioni del marito Denis (interpretato da un ottimo Jim Broadbent) morto da otto anni, e rievoca nella sua mente gli eventi che hanno determinato la sua scalata politica. Il potenziale di uno script dalla narrazione non lineare, nel quale si alternano senza soluzione di continuità avvenimenti storici e immaginari, però non viene sfruttato fino in fondo dalla Lloyd, che mostra poco coraggio nella messa in scena e non riesce a imprimere un particolare punto di vista sul personaggio.
Da una parte l'autrice evita di fornire una chiave di lettura ideologica agli eventi raccontati, trincerandosi dietro la scusa del racconto in soggettiva: una scelta fin troppo facile e furba che, anziché descrivere i fatti con distacco cronachistico, finisce in realtà per realizzare un'apologia della politica tatcheriana (basti pensare al tono patriottico con cui è descritta la guerra delle Falkland e al modo unilaterale e filo-britannico con il quale è affrontata la questione degli indipendentisti irlandesi).
La regista preferisce piuttosto utilizzare una prospettiva femminista per descrivere la Iron Lady come modello di emancipazione in anticipo sui tempi, ma al tempo stesso in grado di coniugare la propria affermazione personale con il suo ruolo di moglie e madre sui generis. Formatasi come regista teatrale, Phyllida Lloyd predilige anche in questo film una messa in scena di tipo drammaturgico (senza peraltro rinunciare a rendere omaggio al suo amore per il musical attraverso numerose citazioni tratte da Il re ed io), e in certi momenti raffigura la Tatcher quasi come un'eroina shakespeariana schiacciata dal peso oppressivo del potere. Tutto questo però non basta a conferire una visione personale al racconto, né a rendere sullo schermo la complessità e le contraddizioni di un personaggio così controverso. A differenza della regina Elisabetta II di Stephen Frears, figura a tutto tondo in cui si alternano luci e ombre, la Signora di ferro di Phyllida Lloyd finisce invece per risultare un carattere fin troppo unidimensionale e quasi agiografico.
Fortunatamente a imprimere la giusta forza a The Iron Lady è la magistrale interpretazione di Meryl Streep, per la quale l'attrice ha già ottenuto il Golden Globe e ha buone probabilità di vincere il suo terzo Oscar. Senza cercare l'imitazione a tutti i costi, la Streep evita di cadere in eccessi grotteschi, ma grazie a un'attenzione minuziosa verso i più piccoli dettagli dell'intonazione vocale e della gestualità, riesce a fornire un ritratto al tempo stesso autentico e personale. D'eccezione è comunque il cast nel suo complesso: oltre alla coppia Streep - Broadbent si segnalano almeno Alexandra Roach nel ruolo di un'entusiasta giovane Thatcher e Anthony Head in quello di un compassato Geoffrey Howe.