Interpretare un mostro - o meglio, un uomo che potrebbe essere un mostro - non significa indossare una maschera grottesca, ma guardarsi dentro e riconoscere l'ombra che ci accompagna. Nella serie Il Mostro gli attori hanno accettato questa sfida: non giudicare, ma percepire, non condannare ma comprendere.
Immedesimazione senza giudizio: l'arte di "non essere il mostro"
Nel corso della nostra intervista, sono emersi alcuni spunti interessanti sulla fase di preparazione della nuova serie Netflix, "Il Mostro". Valentino Mannias, uno dei quattro attori che interpreta "i mostri", insieme a Marco Bullitta, Giacomo Fadda e Antonio Tintis, ha voluto precisare che "non dovevamo pensare di dover interpretare un mostro".

Non un semplice carnefice caricaturale, ma una persona che portava in sé fratture, rancori, dualità. Mannias ha poi aggiunto: "Quell'orrore, quella violenza, sentivo che mi stimolava di più come qualcosa da riconoscere dentro di me per poi comunicarla fuori". Così il salto non è stato verso la "mostruosità" esteriore, bensì verso la zona d'ombra che abita ogni essere umano.
Giacomo Fadda racconta come i provini, all'inizio, fossero per un "ragazzo molto innamorato"... prima che emergesse la brutalità del contesto. Una progressione graduale che imponeva di "non intellettualizzare il personaggio, dargli una qualità prima ancora di capire chi fosse". In questo, la serialità - ogni episodio con il suo "mostro" - ha offerto una struttura che obbliga a una visione circolare del crimine: non solo azione, ma eco sociale.
Marco Bullitta, che interpreta Stefano Mele, aggiunge il terreno su cui ha lavorato: ambienti familiari chiusi, movimenti migratori falliti, un desiderio di riscatto che diventa trappola. Anche qui l'obiettivo non è spiegare "Perché ha fatto questo?", bensì mostrare "Cosa lo ha reso possibile?". Il rispetto è stato dunque una parola-chiave: rispetto per i fatti, ma anche per la possibilità che il male non sia un fuori-terra, bensì l'ombra che dimentichiamo di avere.
Lo specchio del presente: il mostro siamo noi
Nel corso dell'intervista emerge un'affermazione potente: "Quello che ti colpisce ... è che non abbiano un volto, che alleggi un'ambiguità ... ed è lì che in qualche modo si crea uno specchio con noi, perché il mostro potrebbe essere chiunque" come ha raccontato Giacomo Fadda. Questa consapevolezza rende la serie Il Mostro qualcosa di più di un racconto serial-crime: diventa una riflessione sul nostro presente, sulle dinamiche di potere, sugli eredi di una cultura patriarcale che si credeva superata.
Valentino Mannias osserva che la sospensione dell'indagine - il fatto che "non è risolto" - è forse la parte che ci rappresenta di più. (Perché in fondo, non è solo la caccia al colpevole, ma la domanda: "E se fossi io?". Antonio Tintis la mette in termini concreti: dopo una scena d'omicidio, andato via dal set, si chiedeva "Come diavolo è possibile?": memoria personale che riflette una domanda collettiva.

La scelta stilistica della serie - realismo, ambientazione storica, precisione documentale - non è fine a se stessa. Marco Bullitta la sintetizza bene: "Siamo ben lontani dalla pornografia del dolore"; l'obiettivo è evitare lo spettacolo facile della violenza e puntare invece sullo sguardo, sulla radice, sul riflesso che ci rimanda.
Questo duplice approccio - immettersi nel mostro senza giudizio, vedere nel mostro una parte del presente - definisce la cifra di Il Mostro. Non un semplice true-crime, ma un'opera che osa guardare nelle zone in cui tace la società, e invita lo spettatore a non voltarsi dall'altra parte.