Dopo aver conquistato lo scorso anno l'Alfred Bauer Prize con il thriller lesbo al femminile Vic and Flo Saw a Bear, Denis Côté fa ritorno al Festival di Berlino, dove ormai è di casa, con l'anteprima mondiale di un nuovo documentario artistico dedicato, stavolta, al lavoro. Il film, intitolato Joy of Man's Desiring, è una riflessione allegorica low budget realizzata in totale libertà a Montreal mescolando attori e lavoratori veri. Un prodotto eccentrico ed elegante in piena sintonia con il desiderio di sperimentazione dell'autore canadese, uno degli sguardi più originali del panorama internazionale. Altissimo, sorridente, ancora più tatuato del solito, Denis Côté ci racconta i retroscena del film, i buffi aneddoti accaduti durante la preparazione, mentre era alla ricerca delle location in cui filmare l'attività umana e meccanica, e il pensiero nascosto dietro l'opera, poetica e ironica al tempo stesso, in un lungo incontro berlinese in cui ci anticipa anche i suoi progetti futuri.
Il titolo del tuo ultimo lavoro è molto poetico. Da dove deriva?
Denis Côté: Non ne ho idea. Il titolo francese del film, Que ta joie demeure, proviene da una Cantata di Bach che in originale sarebbe Que ma joie demeure. L'ho cambiato perché nel film mi rivolgo ai lavoratori. C'è anche un pizzico di ironia. In inglese ho lasciato il titolo originale della composizione, Joy of Man's Desiring.
Nella tua produzione vi sono due filoni, quello narrativo e quello documentaristico/sperimentale. Joy of Man's Desiring va a inserirsi in quest'ultimo ambito insieme a Carcasses e Bestiaire. Come scegli i temi dei tuoi documentari?
In realtà mi si presentano per caso. Scrivo i miei film più tradizionali in solitudine, poi intervengono i produttori e diamo il via al lavoro sul set. E' un'avventura più convenzionale, ma ne sento tutto il peso perché non sono un autore commerciale e avere a che fare con tutte queste persone mi esaurisce. Non ho mai fatto TV, non ho mai diretto video né spot. Sono un autore solitario e mi piace avere la libertà di sperimentare. Carcasses è nato perché il Montreal Art Center mi ha offerto la telecamera e la sala di montaggio per girare qualcosa per loro. Poi, in Curling ho girato una scena con una tigre allo zoo e lì mi hanno detto: "Torna quando vuoi. Lo zoo è tuo". In effetti lo zoo è un luogo molto cinematografico, così vi ho girato Bestiaire. L'impulso di Joy of Man's Desiring è nato da un pensiero. Mi sono chiesto perché Bestiaire avesse avuto tutto questo successo. La ragione poteva essere che le persone amano gli animali. Allora mi sono detto: "Perché non creare un oggetto cinematografico altrettanto affascinante usando un soggetto noioso?". Mi piace sperimentare il mezzo cinematografico. A volte i miei film sono un enigma e mi piace che il pubblico mi aiuti a comprenderli.
Al di là dell'aspetto sperimentale ed estetico, c'è un tuo punto di vista politico sulla questione del lavoro? Dopotutto Joy of Man's Desiring arriva in un momento di crisi economica e di disoccupazione dilagante.
Parlare di aspetti sociali del cinema per me è arduo. Molti documentaristi pensano di essere oggettivi, ma io credo che l'oggettività non esista. Penso di ricercare l'oggettività sapendo di non poterla ottenere. Tutto quello che riprendo è normale, quotidiano, non ci sono momenti di sofferenza, quindi la mia ricerca verso l'oggettività è reale. Molti critici hanno letto nel mio film una critica al capitalismo. Effettivamente il dialogo tra uomo e macchina è presente, ma è un'allegoria poetica del lavoro. Non ho un messaggio sociale da diffondere, non guardo cinema sociale o politicamente orientato perché è sempre di parte. Sta al pubblico decifrare il contenuto dei miei film perché il mio punto di vista è solo cinematografico. Non sono né un filosofo né un intellettuale.
Non sei un filosofo, ma il monologo che apre il film è filosofico.
No, per me è molto semplice. Contiene tre elementi. Prima di tutto un enigma, chi è questa donna? E' come un boss che spiega le regole del lavoro a un dipendente, ma usa un tono quasi erotico. E poi stabilisce le regole del film nei confronti del pubblico. Il monologo contiene una velata minaccia: se non credi al film ti distruggerà. Può essere presuntuoso, ma non c'è alcun messaggio culturale. E' una stilizzazione dell'idea del lavoro, ma anche un desiderio di fiction al di là del concetto classico di documentario.
Come hai trovato le location?
Mi sono presentato in ventuno diversi negozi, officine e fabbriche di Montreal spiegando che faccio il regista. Ho dovuto parlare con i boss e, dal momento che ho un look vistoso, li ho dovuti convincere della serietà del progetto. E' stato un lungo processo, a volte mi sono dovuto portare dietro i produttori per spiegare che volevo riprendere persone che lavorano. Sembra facile, ma ho dovuto convincere le persone a essere naturali di fronte alla telecamera perché io ero un intruso. Gli operai non sono interessate al cinema. Volevano solo sapere quanto sarebbero durate le riprese e se li avremmo pagati.
In Vic and Flo Saw a Bear c'erano due incredibili personaggi femminili. Anche in Joy of Man's Desiring le figure femminili hanno un ruolo centrale. E' una tardiva scoperta del gentil sesso?
In un certo senso sì. Quando sei giovane fai film su cose che conosci, quindi sugli uomini. Invecchiando sono più attratto dal dialogo e dalla psicologia dei personaggi, perciò sento la necessità di affrontare nuove sfide confrontandomi con figure femminili.
Prima di fare il regista sei stato un critico cinematografico. Come reagisci quando leggi una recensione negativa ai tuoi lavori?
I registi spesso odiano i critici perché non capiscono il loro lavoro. Io lo capisco perché l'ho fatto a lungo. Mi sono fatto dei nemici che a volte incontro ancora ai festival. Questo non vuol dire che rispetti tutti i critici, anzi, trovo che alcuni non sono competenti, non hanno la necessaria conoscenza del cinema, ma di solito non reagisco male alle critiche. Io stesso ero un critico piuttosto severo e un po' di critica è necessaria. Per ogni critica negativa del mio film ce ne sono due positive perciò sono tranquillo.
Il cinema franco-canadese sta attraversando una stagione fantastica. Denis Villeneuve ha girato diversi film negli USA, Jean-Marc Vallée è in corsa per gli Oscar con Dallas Buyers Club, Xavier Dolan è sempre più famoso. Come ti spieghi questo successo?
Il Québec ha solo otto milioni di abitanti e il governo finanzia ampiamente la cultura perciò c'è una sovrapproduzione. Dal momento che siamo circondati da 400 milioni di anglofoni dobbiamo produrre di più per far sopravvivere la nostra cultura. Adesso abbiamo tre autori che lavorano a Hollywood, io che sono quello più underground e interessato agli aspetti artistici, mentre Xavier Dolan è la popstar del gruppo. Nel cinema del Québec c'è un trend, non mi piace tutto, ma trovo che sia un'industria vitale, mentre il cinema anglocanadese è statico de anni e si continua a parlare solo di David Cronenberg, Guy Maddin e Atom Egoyan.
E se un giorno Hollywood ti chiamasse?
Non sono attratto da Hollywood e non la cerco, ma se mi chiamassero valuterei la proposta.
I tuoi film sono caratterizzati da uno humor eccentrico che ha spinto la critica a paragonarti ai fratelli Coen. Concordi col paragone?
Io non capisco da dove venga quest'idea, ma è nata con Curling. Vedendo la neve, la critica ha paragonato il mio film a Fargo. Ho girato un film in bianco e nero e alcune persone mi hanno accostato a Bela Tarr e il bambino che suona la tromba in Vic and Flo Saw a Bear ha fatto nascere un paragone con Wes Anderson. Se qualche similitudine con i Coen c'è è accidentale.
Chi sono i tuoi modelli?
Quando facevo il critico amavo molti registi, ma ora cerco di non citarli più perché quando ho girato i primi film le persone pensavano che fossi influenzato da loro. Lo trovo fastidioso. A partire da Curling e Bestiaire la critica ha cominciato a parlare dei 'film di Denis Côté'. Sono contento di fare un cinema personale e cerco di essere sempre me stesso. Però sono ancora un cinefilo e guardo tantissimo cinema. Sono stupito da quei registi che sostengono di non guardare film perché per me è importante conoscere cosa viene prodotto.
Curling è un film davvero incredibile, anche grazie all'uso che fai del paesaggio. Quanto sei influenzato dalla presenza della natura canadese nei tuoi lavori?
Non è una cosa che dico spesso, ma preferisco Curling a Vic and Flo Saw a Bear. Gli europei mi chiedono spesso dove trovi quei meravigliosi paesaggi, ma se vieni in Canada puoi mettere la cinepresa ovunque. E' vero che abbiamo una relazione speciale con il territorio e con il clima, ma nessuno gira in inverno perché fa troppo freddo perciò sono molto orgoglioso di Curling. Ogni volta che uso il paesaggio cerco di fare in modo che questo diventi un personaggio della storia. In Vic and Flo Saw a Bear ho usato i boschi per creare un'atmosfera di tensione, un senso di minaccia che proviene dalla natura. Questo mood deriva dal fatto che io non vado mai in campagna, sono un amante della città perciò le poche volte che vado in campagna si percepisce la mia tensione.
I tuoi tatuaggi stanno aumentando. Nascondono un significato particolare?
Anche se invecchio continuo a tatuarmi, è vero che stanno aumentando. In Canada e in America è una cosa molto comune e nessuno ci fa caso, ma in Francia il mio aspetto fa molto discutere. Sicuramente c'è una ragione del perché mi tatui, ma non la saprei spiegare. E' un modo per esprimermi o per nascondere le insicurezze.
Quale sarà il tuo prossimo film?
Dopo un film a zero budget come Joy of Man's Desiring girerò un'opera più impegnativa a livello produttivo. Ho già scritto cinquanta scene. Il protagonista sarà un cinquantenne colto e ricco, un uomo di successo stanco della società che lo circonda. E poi a maggio girerò un corto in Portogallo che farà parte di un film collettivo sulla città di Lisbona. Per me sarà la prima volta che girerò fuori dal Québec.