Dalla pubblicazione di Denti bianchi, all'alba del nuovo millennio, Zadie Smith si ritrovò ad essere, a soli ventiquattro anni, una delle voci più apprezzate della letteratura anglo-sassone contemporanea; proprio per definire quel suo folgorante libro d'esordio il critico James Wood avrebbe coniato l'espressione "realismo isterico". Da allora, l'ex enfant prodige londinese ha firmato altri quattro romanzi, due raccolte di racconti e una notevole produzione saggistica, mentre nel 2005 la rivista Time ha inserito Denti bianchi nella lista dei cento capolavori della narrativa dell'ultimo secolo. Domenica, a pochi giorni dai suoi quarantasei anni (li compirà il 25 ottobre), Zadie Smith è stata fra gli ospiti della Festa del Cinema di Roma 2021 per un incontro con il pubblico: un incontro dedicato, come da tradizione, ai film preferiti della scrittrice britannica di origini giamaicane, che ha motivato con tono vivace e appassionato le proprie scelte.
A inaugurare la discussione, però, è stata una domanda sul primissimo film che Zadie Smith ricordi di aver visto, e la sua risposta le ha permesso di introdurre da subito il tema della questione razziale all'interno del nostro immaginario culturale: "Temo che probabilmente sia stato Via col vento: avevo cinque o sei anni e lo trasmettevano in TV a ogni Pasqua. Lo vedevo con mia madre, eravamo entrambe appassionate di storie drammatiche, eppure ogni volta mi rifiutavo di vedere le scene in cui Mamie veniva maltrattata. Mia madre mi disse però che grazie a quel ruolo Hattie McDaniel era diventata una delle donne più ricche di Hollywood; credo sia importante ricordare quanto sia stato difficile per gli attori afroamericani in quel contesto e quanto siano riusciti comunque ad ottenere. Ogni generazione deve fare i conti con l'immaginario culturale a proprio modo; io sono cresciuta in un mondo molto diverso, in cui c'erano diverse reazioni rispetto alle opere d'arte. Con Via col vento c'è il romanzo, la storia, il femminismo e una visione incredibilmente razzista della schiavitù, e tutte queste cose sono combinate insieme".
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Stormy Weather
È un vecchio musical interpretato solo da neri e girato nel bel mezzo della guerra, in condizioni estremamente difficili. Per me Stormy Weather è un esempio della persistenza e della forza della comunità nera. Posso immaginare che un giovane, vedendolo oggi, rimarrebbe colpito da tutti i cliché sull'Africa: è vero, ma ci sono tante altre cose da osservare. Questo tipo di danze erano messe in scena da artisti che, senza questo film, non avrebbero avuto l'occasione di farcela, come Bill Robinson e Lena Horne, proveniente da una famiglia comunista e antirazzista; Lena Horne e tutte le altre persone hanno raccolto i proverbiali limoni e hanno fatto una limonata. A me, che sono nata molto tempo dopo, questo film ha dato l'opportunità di sentirmi come in un vecchio cotton club; e l'aspetto più straordinario dei cotton club erano le orchestra jazz. È un miracolo: cinquanta musicisti che, senza alcuna struttura e senza aver studiato al conservatorio, riescono a creare arte tutti insieme, davanti ai nostri occhi.
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Incontriamoci a Saint Louis
Nei festival si celebrano gli autori, ma c'è un altro tipo di film che mi interessa molto: quelli che sembrano nascere dalla cultura dell'epoca, quasi in maniera inconscia. Adoro Incontriamoci a Saint Louis, ma penso che sia uno dei film più strani del canone americano: è ambientato a Saint Louis nel 1904, un'epoca in cui mezza città era popolata da neri e tutti i lavori da domestici erano svolti da neri. Il film è stato realizzato alla metà degli anni Quaranta, da un regista progressista con uno studio progressista, e mi immagino che abbiano pensato: 'E ora come cazzo facciamo?'. Il risultato è stato che tutti i membri della servitù sono stati interpretati da irlandesi! È un musical e Judy Garland è celestiale, ma è stato girato all'apice del razzismo. In Incontriamoci a Saint Louis c'è quello che in psicanalisi si definisce il "ritorno del represso": compare una testa di moro in cima a una scala, una canzone è un vecchio spiritual nero cantato da bianchi, e a un certo punto c'è quasi un momento da blackface. Gli elementi neri tornano continuamente nelle canzoni: ce n'è una in cui Judy Garland si esibisce fingendo di essere africana. È una delle produzioni americane più bizzarre, ed è emblematica della sinistra americana: per paura di alcuni temi, si evitano del tutto. In ogni caso, è un gran musical!
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Jackie Brown
Sono una figlia degli anni Novanta, pertanto Le iene mi lasciò stupefatta. Per me Quentin Tarantino è come Alfred Hitchcock: nei suoi film non c'è nulla di improvvisato o libero. Per una come me, che costruisce immagini, è bellissimo vedere un film basato sulla costruzione di immagini. In America c'è la segregazione, ma Tarantino dice che ci sono due mondi senza segregazione, che lui ama rappresentare: il mondo immaginario del cinema e quello del sottoproletariato. Ciò che amo di più di Tarantino è il suo modo di lavorare con gli attori: è completamente differente dal realismo. Lui crea icone, ed in questo è incredibilmente bravo! Si tratta di cogliere il carisma degli attori: se al termine dei titoli di testa non sei innamorato di Pam Grier, c'è qualcosa che non va in te! Per esempio anche Brad Pitt, che è diventato un'icona quando è salito sul tetto senza maglietta nell'ultimo film di Tarantino: un'immagine che non dimenticheremo mai!
In Jackie Brown, Tarantino ha dimostrato che Robert De Niro è un attore 'silenzioso', come Buster Keaton: per quasi tutto il film non dice una parola, ed è una delle sue più grandi performance! De Niro ha pronunciato famosi monologhi, ma è il suo volto ad essere un capolavoro, e ancora una volta è stato Tarantino a rendersene conto: ha preso il più famoso attore americano e non gli ha fatto dire una parola per due ore e mezza! Gli ultimi film di Tarantino li definisco community revenge movies: uno per gli ebrei, uno per i neri... tutti dovremmo averne uno, dove alla fine tutti vengono uccisi! Ma anche Jackie Brown è un po' così: quando la vediamo camminare per la prima volta somiglia a una regina africana, ma poi ci appare come una tipica donna afroamericana stanca e stressata. E anche questo è un revenge movie, una fantasia! Non molto politico, magari, ma estremamente catartico. E sono stata felicissima per Pam Grier, che grazie a questo film è stata riscoperta, rivalutata e ha avuto il miglior ruolo della sua carriera!
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Il nastro bianco
In America ci fu un dibattito sul fatto che Il nastro bianco implicava che i bambini del film sarebbero diventati nazisti, suggerendo che il nazismo avesse avuto una matrice psicologica: l'ipocrisia degli adulti, sul sesso e sulla religione, può deviare e distruggere una generazione. Capisco quest'obiezione, ma per me si tratta di un equivoco americano a proposito dell'arte: l'arte non deve dare spiegazioni a trecentosessanta gradi su questioni sociali. Il nastro bianco è un film sul Male, ed è qualcosa di importante. Ci sono tante possibili dimensioni da analizzare, ma questo film esplora la perversione e la crudeltà degli esseri umani, come si intuisce anche dallo scambio di sguardi fra i bambini. Michael Haneke è interessato al bisogno umano di fare del male.
È insolito nella cultura inglese o americana fare i conti con le responsabilità delle gerarchie, si trovano sempre delle scappatoie. Haneke, invece, affronta la gerarchia fra bambini e adulti, a cui non possiamo sfuggire: tutti siamo stati bambini, tutti siamo adulti, e conosciamo la manipolazione insita in questo scontro di potere fra adulti e bambini. Michael Haneke, a differenza di tanti autori d'avanguardia, ama la narrazione e ama la manipolazione; ha fatto un casting enorme per trovare dei bambini in grado di spezzarti il cuore con il loro viso. Haneke usa ogni strumento, narrativo o emotivo, per colpire lo spettatore e metterlo a disagio.
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Sto pensando di finirla qui
Charlie Kaufman mi è simpatico perché realizza film sulle idee, una cosa molto poco americana. Sto pensando di finirla qui è arrivato su Netflix durante la pandemia, quindi purtroppo non l'ho mai visto al cinema. Qui Charlie si occupa dell'idea della mediazione: qualcosa che facciamo tutti continuamente, perfino quando leggiamo un libro. E Charlie pensa che sia importante domandarsi se spendiamo tutta la nostra vita impegnati in una mediazione; lui, in qualità di regista, se ne occupa nel cinema, e si rende conto che per generazioni di americani la realtà viene mediata dai brutti film e dalla televisione. I film di scarso valore modellano la nostra idea della realtà con la loro struttura narrativa. Charlie, per esempio, si interroga su come percepiamo il tempo attraverso le commedie romantiche di Hollywood: è folle, è folle il modo in cui le relazioni si sviluppano attraverso qualche scenetta comica e un po' di musica!
Nel suo film, invece, il tempo è completamente distorto, i personaggi invecchiano e ringiovaniscono e poi di nuovo invecchiano. Charlie vuole mostrarci cos'è davvero il tempo: un folle circolo di ricordi e desideri, che sfida le leggi della fisica. Ho provato a scrivere Swing Time in questo modo, ma la gente percepisce la propria vita come una commedia romantica e discute delle proprie relazioni come se fossero una commedia in tre atti. È molto difficile spezzare questa formula, ma Charlie ci è riuscito: Netflix gli ha dato carta bianca e lui se l'è presa. Non so quanto siano stati felici del suo film, ma io ne sono stata felicissima!
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