Un padre e un figlio. Una Volvo un po' scassata. E una tradizione, antica e bella, nella Palestina del Nord: quella di consegnare a mano, personalmente, le partecipazioni del matrimonio della propria figlia. Abu Shadi, 65 anni, insegnante, e Shadi, il figlio maggiore, tornato in Palestina dall'Italia per le nozze della sorella, iniziano un viaggio tra amici e parenti. Che sarà soprattutto un viaggio dentro se stessi. È la storia di Wajib - Invito al matrimonio, il film di Annemarie Jacir candidato al premio Oscar come miglior film straniero per la Palestina, e in uscita nelle nostre sale distribuito da Satine Film il 19 aprile. Wajib significa "il dovere", ed è appunto quello di consegnare personalmente gli inviti, come forma di rispetto verso gli invitati.
"Volevo concentrarmi sull'indagine del rapporto tra un padre e un figlio" ha raccontato la regista Annemarie Jacir che ha presentato il film ieri a Roma. "E su una tradizione, che non è più molto praticata nei palestinesi della Diaspora, ma ancora molto praticata nella Palestina del nord, quella di consegnare a mano le partecipazioni per il matrimonio di una figlia". Wajib è un film interessante proprio per questo: per vedere la Palestina sotto un altro aspetto, che non sia quello di Gaza e dei fatti più tragici, e per capire che cos'è oggi Nazareth, una città che tutti leghiamo a una storia di duemila anni fa. E invece è anche storia recente. "Nazareth oggi è la più grande città della Palestina storica, quella che oggi è Israele" racconta la regista. "È costituita da palestinesi, il 40 % sono cristiani, il 60 % musulmani. È una città piena di tensioni: i palestinesi hanno dovuto acquisire la cittadinanza israeliana dall'occupazione del 1948, ma sono cittadini di seconda classe, non hanno gli stessi diritti di cui godono gli israeliani. C'è una lotta continua per conquistarsi spazio, uno spazio economico, posti di lavoro, e soprattutto c'è la lotta per poter restare nella propria terra". "Nazareth ha dato ospitalità a molti rifugiati palestinesi dal 1948, c'è un quartiere che è un campo profughi e molte persone che ci vivono vengono da un villaggio completamente distrutto nel 1948" aggiunge Saleh Bakri, l'attore che interpreta Shadi, il figlio.
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Father and son
Una delle particolarità del film è che Abu Shadi e Shadi, padre e figlio nella storia, sono interpretati da due attori che sono padre e figlio nella vita reale. Mohammad Bakri, attore palestinese famoso in tutto il mondo (ha recitato in Private di Saverio Costanzo, per il quale ha vinto il Pardo d'Oro come miglior attore a Locarno) e Saleh Bakri (lo abbiamo visto in Salvo di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza). "Siamo stati fortunati a lavorare su dei corti prima di questo lungo e sofisticato film" rivela Saleh Bakri. "Abbiamo lavorato in tre corti e in un lungometraggio, dove però il mio ruolo era ridotto. È stata una specie di prova per questo film più grande. Nel film i rapporti tra padre e figlio sono molto difficili: ci sono molte tensioni, molte discussioni, molte differenze. Ci sono molte cose su cui non sono d'accordo con mio padre, ma non siamo così lontani come il padre e il figlio del film. Ma ci siamo goduti ogni singolo istante del film".
"Ho sempre lavorato con Saleh, ma mai con suo padre, che è una leggenda del cinema palestinese come attore e come regista" rivela Annemarie Jacir. "Ho esitato molto prima di metterli insieme: sono grandi attori, ed è sempre difficile lavorare con qualcuno della tua famiglia. Inoltre Mohammad è molto diverso dal personaggio: non è un uomo spezzato come nel film, è uno che quando entra in sala tutti lo guardano, una figura carismatica. Nel film, poi, il figlio ha perso il rispetto per il padre, mentre non è così nella realtà. È stata una grande sfida, ne avevo paura poi ne abbiamo parlato. E Mohammad mi ha detto: questa sarà la sfida più grande della mia carriera". Padre e figlio si muovono nello spazio chiuso di una macchina, uno di quei luoghi in cui esplodono i conflitti e le tensioni. "Volevo inserire due persone in un contesto intimo come la macchina" spiega la regista. "Per il figlio è una trappola, è quel senso di prigione che sente tornando a Nazareth. Per il padre è tutto, è la macchina di famiglia, quella che usava quando aveva ancora tutto, e ora è l'unica cosa che gli rimane. La macchina mi serviva per passare da uno spazio privato a uno spazio pubblico. Quanto al rapporto tra i due uomini, vengo da una famiglia dove le donne parlano molto e hanno molto potere. Ho un padre e un fratello che si parlano poco. Volevo analizzare questo aspetto, e come si dicono le cose che non si riescono a dire".
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È un film politico?
Dietro al racconto di un rapporto umano c'è la condizione di un popolo, quello palestinese, che, se apparentemente non è in primo piano nella storia di Wajib, nelle vite dei protagonisti è presente eccome, e deflagra nel confronto del sottofinale tra padre e figlio. Frustrazioni, compromessi, ingiustizie da mandare giù in silenzio. Ci si chiede allora se quello di Annemarie Jacir sia un film politico. "Cerchiamo di raccontare la storia partendo da una tradizione di Nazareth e della Palestina del Nord" spiega Bakri. "È una finestra sulla vita di Nazareth, sulla società, attraverso l'esperienza di un padre e un figlio. È una finestra aperta anche per me che, da palestinese, ho scoperto delle cose che non sapevo sulla mia società. Non faccio film per fare politica ma per tuffarmi nella condizione umana, per indagare nei personaggi, nella loro umanità, per coglierne le contraddizioni, i sentimenti, l'amore e l'odio. Cerco di lavorare sul mio ruolo. E scelgo i ruoli che siano una sfida per me". "Da autrice non faccio film per mandare messaggi: cerco di raccontare storie nel modo più onesto che posso. Faccio cinema per fare domande, su di me, sul mio Paese" spiega la regista.
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Girare un film a Nazareth, oggi
La città che tutti noi associamo a Gesù oggi è una città caotica, a tratti anche violenta. Non è stato facile girare un film qui. "Ovviamente ci sono difficoltà nel girare a Nazareth", racconta Bakri. "È una città piena di tensioni, dal 1948 non si fa altro che costruire l'uno sull'altro perché le terre sono state confiscate e lo spazio non c'è. C'è molto traffico, rumore, ignoranza, violenza. Er poi c'è l'amore, ci sono le tradizioni, il desiderio di una vita migliore. La vita non è mai vuota, c'è sempre qualcosa da scoprire". "Ho girato in molti luoghi, in molte città della Palestina tranne la mia Betlemme" racconta Jacir. "Nazareth ha delle difficoltà diverse: è una città dove c'è un insediamento sulla collina, Nazareth Illit, costruito negli anni Cinquanta: è il luogo dove i due vogliono salire per consegnare un invito a Ronnie, un israeliano. Quando siamo andati lì ci hanno cacciato due volte, perché hanno visto una troupe palestinese ed europea. I vicini si sono lamentati e hanno chiamato la polizia. Senza una ragione specifica. Hanno sentito parlare in arabo e, nonostante avessimo il permesso, ci hanno mandato via. Queste sono le difficoltà di Nazareth: a Gaza e Ramallah è difficile perché vedi l'occupazione vera. Questa è un altro tipo di occupazione".