Recensione Viva Zapatero! (2005)

Documentario/denuncia/propaganda. C'è tutto (e niente) nell'ultima fatica cinematografica di Sabina Guzzanti

Viva (?) Zapatero(??)

Dopo l'inopportuna e pretestuosa soppressione dal palinsesto notturno di Raitre del suo programma (più o meno) satirico, Sabina Guzzanti opta per armi più fini (se così si possono definire), dedicandosi al cinema, e scrivendo un film di denuncia sulla sua trasmissione di denuncia. Un'involuzione di generi e espressioni comunicative paurosa, che dà però vita al frizzante Viva Zapatero!, film/documentario di accusa/propaganda che di tutto tratta tranne che degli spagnoli e del loro primo ministro.
La Guzzanti si rifà agli ormai celeberrimi film a tesi di Michael Moore, costruendo il documentario per metà con interviste realizzate ad hoc, per l'altra con sketch e parodie ripresi dai suoi programmi o da programmi di satira internazionali. La tesi che enuncia si distingue in modo netto nel film dal (brutto) cinema di Moore per due principali motivi: il primo, non indifferente, l'afferenza della Guzzanti al mondo della satira informativa, tutt'altra cosa rispetto al documentarismo d'inchiesta. Il secondo, non meno importante (anzi) del precedente, è l'autoreferenzialità della costruzione del prodotto cinematografico. Sono questi i due aspetti fondamentali che segnano Viva Zapatero!, al di là dell'enunciato della tesi che, rispolverando argomenti e teorie un po' lise a dire il vero, si concentra sulla possibilità di far televisione e sul limbo di confine tra satira e informazione nel servizio di Stato.

Il primo punto su cui la Guzzanti costruisce (non si sa quanto consapevolmente) la sua identità di cineasta, smarcandosi da facili analogie con un certo tipo di documentarismo d'assalto, è la sua identità pubblica di show-woman del mondo della satira impegnata. Ed è dunque sull'impegno che la regista (o si dovrebbe dire montatrice, o protagonista?) fonda il suo film, creando una dissonanza tra il tono con il quale affronta - in voice off - la vicenda, con la relativa costruzione dell'impianto musicale e sonoro, e il materiale che funge da contenuto vero del film, materiale che, raccogliendo in gran parte spezzoni di programmi satirici (di casa Guzzanti e non), non si presta agevolmente ad un tipo di lettura seriosamente militante. Non si capisce se sia una dicotomia cercata, ma si avverte un'inadeguatezza del ritmo delle immagini rispetto al tentativo ricerca di un tono pacato e incedente.

Secondo punto interessante nell'analisi della costruzione del film è l'autoreferenzialità del racconto a tesi portato avanti dalla pellicola. Essendo parte in causa, la Guzzanti non esita ad affiancare alla sua tutte le situazioni di "precarietà del posto di lavoro", chiamiamole così, del mondo televisivo, ma non solo. Finisce addirittura per avocare alla categoria degli emarginati dal potere l'ottimo Ferruccio de Bortoli. Esempio di come l'analisi della Guzzanti sia in diversi punti fumosa, senza uno scopo preciso, pur venendo aiutata da interviste imbarazzanti (per gli intervistati) dell'establishment politico italiano.
La sequenza (?) finale è paradigmatica di questi due grandi vizi (?) da cui il film trae linfa, presentando in maniera drammaticamente partecipe e accorata quella che è stata la grande festa dell'Auditorium romano nella serata della seconda puntata del programma.

Un buon film di propaganda, che sarà duro terreno di scontro fra le parti, ma che non aggiunge nulla di nuovo né di decisivo nell'autunno cinematografico, se non per un'eco che con il cinema - anche quello veramente politico - non c'entra nulla.