Recensione Melinda e Melinda (2004)

Allen parla della vita, della sua imprevedibilità e dei meccanismi morali e sociali che la determinano e la condizionano; è questa, da sempre, la materia privilegiata del suo narrare. Ciò che manca al suo nuovo film è però la verve...

Un Woody minore

Interno giorno: un drammaturgo, un comico e altri due artisti della middle class progressista newyorkese discutono in un caffè sul valore del punto di vista dell'autore e su quanto questo influenzi la materia della loro narrazione. Sono le sfumature derivanti dalla propria cultura e di conseguenza dal proprio sguardo sulle cose a incanalare una storia verso una direzione comica o tragica? Siamo nel mondo di Woody Allen, non c'è dubbio, o meglio in quello di una sua tipica creatura: una donna raffinata ed emancipata ma allo stesso tremendamente insicura e nevrotica. Lasciamo da parte quindi il sottotesto della realtà che non parla da sola (acquisizione d'altronde fortemente radicata nel pensiero filosofico contemporaneo) e entriamo nel mondo di Melinda, due donne in una, una tragica e una comica, a seconda del punto di vista. Entrambe entrano una sera in una casa nel bel mezzo di una cena e sconvolgeranno la quieta e agiata vita delle rispettive famiglie. Melinda è divorziata e ex adultera, ha tentato il suicidio, va avanti ad alcool e antidepressivi e non riesce ad ottenere l'affidamento dei figli. In compenso si innamorerà delle persone sbagliate, farà innamorare di sé altrettante persone sbagliate, verrà tradita e tradirà... o forse no?

Allen alla sua 34esima regia rimane indissolubilmente legato al suo cinema, ai suoi romantici luoghi, al suo old jazz, alle sue abitazioni raffinate e antitecnologiche, fedele come la pioggia sui campi di Wimbledon. Ma non è questa ripetitività e questo rimanere ancorato ad una realtà forse poco rappresentativa dei tempi che va rimproverata ad un regista spesso capace, nonostante questo, di emozionare, divertire, appassionare e fare riflettere con la sua profonda semplicità. D'altronde Allen parla della vita, della sua imprevedibilità e dei meccanismi morali e sociali che la determinano e la condizionano; è questa, da sempre, la materia privilegiata del suo narrare e quindi un certo staticismo è giustificato perché implicito in un tema piuttosto scevro da forzati sociologismi dell'ultima ora. Ciò che manca al suo nuovo film è invece la verve, la grinta, oseremmo dire. Melinda e Melinda, per quanto non sia affatto spiacevole, dà l'impressione di essere nato stanco, privo di freschezza; debole e questa sensazione attraversa tutta la visione ne enfatizza gli evidenti cali nella tensione narrativa e la mancanza di elementi di particolare significato.

E' così che gli excursus esistenziali tipici dei suoi personaggi e riguardanti il significato dell'amicizia, dei sentimenti, l'ego, la soddisfazione e le ansie della modernità appaiono spuntati e poco convincenti. Niente di nuovo ci viene detto e niente di vecchio ci viene ripetuto con stile frizzante, nonostante l'idea di partenza offrisse buone possibilità.

La sua assenza come interprete, inoltre, è allo stesso tempo un vantaggio ma anche un limite nel suo cinema, esclusione fatta per l'ottimo equilibrio presente in molte pellicole dove la sua presenza è confinata ad un personaggio di contorno, come motore della storia (si pensi allo straordinario Crimini e misfatti, su tutti). Se da una parte, infatti, permette al plot di essere meno accentrato sulla sua figura affidandosi alle sempre buone prove dei suo cast, allo stesso tempo espone il regista newyorkese a una minore garanzia di buon risultato con i minimi sforzi.
A questo va aggiunta una certa incapacità narcisistica nel non riuscire a rinunciare, come quasi ogni autore d'altronde, ad inserire sé stesso in un altro personaggio. Questo evidente autocompiacimento che, si badi bene, in titoli di maggiore fattura si trasforma in un elemento di forza e riconoscibilità, finisce spesso per trasformare il suo alter-ego in una macchietta sbiadita e poco convincente, in ragione del fatto che questa attribuzione di significato è ostentata e didascalica, priva di ricerca e di elementi metaforici. In altre parole, è sufficiente che Will Ferrell apra bocca e dica la sua prima battuta perché si capisca che lui è Woody Allen. Ed è proprio il suo personaggio che proprio non riesce a prendere quota, finendo per annoiare, se non infastidire, con il continuo ricorso ad una battutistica ormai abusata e ridondante. Sotto questo aspetto, si è sorprendentemente dimostrato più convincente il giovane Jason Biggs, che in Anything Else ha dimostrato di destreggiarsi bene come alter-ego di Allen. Discorso diverso per le altre prove del cast, soprattutto per la protagonista: l'affascinantissima Radha Mitchell, perfetta nel tratteggiare il suo personaggio con credibilità e realismo. L'avevamo apprezzata in Pitch Black e in In linea con l'assassino, ma nel film di Allen appare assolutamente perfetta.