Un western metropolitano
Lui è un arrampicatore sociale, di quelli duri e puri, pronti a tutto, eppure signori: mai uno sgarro alla regola, mai un vestito appariscente, mai un mettersi in mostra più del necessario.
La sua società è il racket dell'eroina della Grande Mela.
L'altro è un detective, di quelli con la faccia stropicciata dall'insonnia, dal giubbotto di pelle liso sui gomiti, di bicipiti torniti e dalla prominente pancia alcolica.
Lui fa soldi sporchi, organizza un giro di roba nel Queen's, il denaro gira, il rispetto è presto guadagnato.
L'altro trova un milione di banconote non segnato dopo un'inutile pedinamento, ma non se le tiene. Per l'altro vengono prima la legge, il distintivo, l'imperativo morale.
Lui scopre il Vietnam, terra infida ma senza regole, adatta agli spregiudicati gallina dalle uova d'oro, anzi no, d'eroina.
E completa la scalata. Porta la famiglia nella city, la veste, la nutre, la usa come base di un nascente impero.
L'altro perde tutto, moglie e figlia. Il padre non è un ruolo per lui, non gli calza. Il lavoro, la caccia al nemico, è l'unica ragione di una vita che fatica a decollare.
Finchè, un giorno, un vistoso cappotto d'ermellino, unica, malaugurata, scelta bizzarra di lui, dettata dall'amore, non lo fa notare ad un obiettivo di una macchina fotografica che non gli si staccherà più di dosso.
E i due destini si incrociano.
Lui è Denzel Washington, l'altro è Russell Crowe. A raccontarci la storia, una delle tante storie di poliziotti e gangster, di cappa e spada metropolitana, è il navigato Ridley Scott. Ingredienti esplosivi per questo American Gangster, che porta a ribalta la (romanzata) storia vera dell'unico malavitoso di colore, Frank Lucas, che ruppe in modo talmente sorprendente il monopolio "italiano" nello smercio newyorkese della droga che, perché la polizia si accorgesse del suo effettivo potere di condizionamento del teatro criminale cittadino, occorsero diversi anni (e un cappotto di pelliccia, come suggerisce Scott).
Fotografia livida, durata che si confà a quello che punta ad essere un nuovo classico, coppia di attori che fa il paio ad altri grandi film del genere e di genere (citiamo al volo solo Heat - La sfida, per capirci), trama avvincente, mai forzosamente spettacolarizzata ma che riesce a tenere sul chi vive lo spettatore senza far ricorso ad artificiosi colpi di scena.
Scott ha un'idea chiara in testa, influenzata dalle giungle urbane dei Mann e degli Scorsese, all'epica leoniana del C'era una volta in America. Ed è forse questo appiattimento su un passato ingombrante e incombente che smorza l'effetto di un film che comunque mantiene un ampio respiro, un passo lungo, non infastidito da ostacoli ed intoppi di sorta.
Perché American Gangster è sì un buon film, solido, appena poco aiutato da una regia a tratti scolastica e nulla più, difetto sul quale si può, tutto sommato, sorvolare. Ma soffre troppo di riferimenti e richiami ad una filmografia alla quale fa sfacciatamente riferimento, finendo per involgersi su dinamiche e messe in scena che non regalano nulla di nuovo allo spettatore smaliziato.
Certo, è sempre un bel vedere un Denzel Washington in piena forma - un po' sottotono, di 'maniera', appare invece Crowe - muoversi in un affresco di un'America che non c'è più.
Ma non basta per far decollare la pellicola nel pantheon dei gangster movie, che rimane a sorvolare, pur maestoso, ma da quote modeste, le tematiche del genere.