Recensione Old Boy (2003)

Film complesso, ambiguo ed avvincente, Old Boy rientra in quell'esiguo numero di pellicole moderne che lasciano decisamente il segno, fornendo l'ennesima conferma del talento del quarantunenne regista coreano.

Un vecchio ragazzo vendicativo

Arriva dalle nostre parti, ad un anno dall'acclamato passaggio a Cannes (dove ha vinto il Gran Premio della Giuria) Old Boy, il quinto film, ma il primo distribuito nel nostro paese, del coreano Park Chan-wook.
Tratto dall'omonimo manga giapponese, Old Boy è il secondo episodio di una trilogia che il regista ha voluto dedicare al tema della vendetta, che conta il precedente e sconvolgente Sympathy for Mr. Vengeance e il conclusivo Sympathy for Lady Vengeance.

Improvvisamente sequestrato, Oh Dae-soo viene chiuso, senza alcun apparente motivo, per quindici infiniti anni, in una stanza buia ed opprimente arredata solo di un televisore da cui scoprirà il brutale omicidio della moglie; l'uomo viene drogato, ipnotizzato e negli anni sostanzialmente trasformato in un animale disperato. Rigettato dopo questo martirio in una città completamente spaesante rispetto a quella in cui ha vissuto prima della reclusione, in una Corea ormai industrializzata e fatiscente, Oh Dae-soo entrerà a far parte solo di una prigione più grande e, anche se incontrerà l'amore, l'unico sentimento in grado di fornirgli stimoli vitali sarà la vendetta. Una vendetta meditata e desiderata per anni, ma che non sarà priva di rivelazioni e di inevitabili reazioni.

Film complesso, ambiguo ed avvincente, Old Boy rientra in quell'esiguo numero di pellicole moderne che lasciano decisamente il segno, fornendo l'ennesima conferma del talento del quarantunenne regista coreano. Costruito per essere fruito su molteplici piani di lettura, è un film dall'impianto spettacolare e dalla tecnica notevole, un'opera che spiazza, impressiona e soprattutto è capace di disseminare lungo la strada alcuni momenti da antologia, sprazzi di enorme potenza visionaria che trovano nell'ottima interpretazione di Choi Min-sik un adeguato supporto. Assimilabile, per l'estremismo con cui affronta il tema portante e per alcuni eccessi su cui è lecito ipotizzare contrapposte reazioni, al film precedente, se ne distacca formalmente, nonostante permanga come marchio di fabbrica del regista quel barocchismo della messa in scena che si fa strada dalle prime immagini del film. Dove Sympathy for Mr. Vengeance era, infatti, rigoroso e visivamente magniloquente, Old Boy appare meno pensato e più incline a strizzare l'occhio ad un'estetica ruffiana e meno ricercata, ma probabilmente più coinvolgente, con la sua fotografia sporca e le sue trovate grafiche e tecno-ludiche a sostituire i complessi giochi cromatici e i notevoli fuori campo dell'opera precedente. Di contro, questo secondo episodio si dimostra narrativamente più accattivante e associabile in una struttura da thriller; ne è inequivocabile indicatore il fatto che sia in lavorazione l'immancabile remake americano.

Detto di tali distinguo, Park rimane autore di un cinema decisamente poco compromissorio che ben poco ha a che vedere con l'onnicitato Quentin Tarantino (a meno che non si deleghi totalmente al regista americano il monopolio della stilizzazione grafica della violenza). Il regista coreano si fa impunemente beffa del rischio di una pretestuosità a volte evidente; non cerca di sviluppare l'empatia coi protagonisti né teme di farsi prendere la mano dal delirio vorticoso degli accadimenti, puntando ad inserirci in una vicenda aspra e truculenta, frenetica ed oscura nella quale il pubblico diviene progressivamente un voyer-carnefice alla ricerca di una catarsi solutoria, che è una catarsi opinabile, nella sua sostanza, quanto il giudizio sul film, e che viene affidata ad un lungo denoument chiarificatorio. Dietro la riflessione sulla vendetta e sulla violenza, e oltre lo sfoggio tecnico, emergono numerosi altri spunti sull'etica, sulla Corea, sull'identità e sulla responsabilità delle proprie azioni. Ma è nella capacità di entrare a forza nell'immaginario dello spettatore che va ricercata la forza assoluta di un film che ha un finale di troppo e varie autoindulgenze ma che sa affrancarsi da tali limiti per questa rara capacità di giungere ad una sintesi che si rifiuta di voler rimanere indifferente.