Recensione Easy Rider (1969)

Una lunga strada percorsa, al contrario degli itinerari consueti, da ovest ad est in cerca di fortuna. Gli splendidi paesaggi naturali degli States. I cavalli sostituiti dai chopper in un western urbano dove i cowboys sono i veri cattivi.

Un canto libero e di morte

Mai film underground è stato così folgorante nella storia del cinema americano. E' anche vero che non si possono dimenticare i John Cassavetes, i Roger Corman e tutti coloro che hanno gravitato intorno alle loro orbite.

Ma Easy Rider s'impone per la sua forza d'urto e soprattutto per aver sintetizzato e racchiuso nell'arco di un film lo spirito di ribellione dei Sixties (omaggiati dalla ponderosa colonna sonora basata su canzoni "d'epoca": Easy Rider in questo senso è probabilmente anche il più grande monumento che il cinema abbia eretto al rock più acido e stradaiolo). La regia di Dennis Hopper è artigianale e dilettantesca ma nella miglior accezione del termine, perfetta nelle sue imperfezioni e con sprazzi di vera genialità (il collegamento tra due sequenze attuato tramite la rapidissima riproposizione alternata dei fotogrammi di cesura crea un effetto allucinatorio, come altrettanto sensazionale è la panoramica del Grand Canyon in cui la notte si trasforma magicamente, e invisibilmente, in giorno).
Gli spazi sconfinati che i due protagonisti attraversano quasi ininterrottamente con piccole ma significative soste, hanno un respiro ampio, immenso, e suscitano un senso di libertà che però condurrà inevitabilmente alla morte (come il teschio che sembra affacciarsi sulla partita di cocaina (vero punto di partenza del viaggio "iniziatico" verso la fortuna) beffardamente anticipa ad inizio film).

Se si ha il coraggio di forzare il dato testuale, Easy Rider è un inno all'innocenza perduta da parte dell'umanità. Umanità che così è destinata a soccombere sotto le sferzate della moralità imposta dalla società perbenista, sempre pronta a criticare e maltrattare i "diversi", come i venusiani della storiella raccontata dall'avvocato ubriaco incontrato lungo il tragitto (un Jack Nicholson che proprio con il film d'esordio di Dennis Hopper conseguirà il suo primo successo). Il film è assolutamente discontinuo ma è tutta qui la sua forza evocativa. Hopper rimugina il cinema d'autore dal suo interno ma rimanendone a debita distanza, riuscendo a spersonalizzare letteralmente i due protagonisti. Capitan America e Billy sono due esseri che fanno della libertà la loro essenza di vita. Sono due individui che non suscitano simpatia ma neanche antipatia. Le persone che incontrano nel ranch, nella comunità di hippies, nel bar o nel bordello hanno molto più da dire. Anzi, sono le uniche figure del film che dicono realmente qualcosa di concreto, nel bene o nel male.

Capitan America e Billy hanno il solo compito di portare lo spettatore on the road, conducendolo negli anfratti più nascosti dell'intima coscienza degli States (e in modo molto più incisivo dei pseudo-documentari di Michael Moore). Costituiscono un Caronte a due teste che sembra trascinarci nell'inferno della civiltà moderna a bordo non della sua barca ma di due motociclette.

Capitan America e Billy si mettono quasi da parte, fino a sfumare letteralmente nel finale con un tragico guizzo all'insù, con la mdp che vola alto riprendendo la mortale nuvola di fumo: un fucile ha spazzato via la vita dei due protagonisti e dei loro chopper come in un'altra allucinazione, che questa volta è però reale. E' la lucidità di un'intolleranza strisciante ben radicata nel tessuto sociale e, proprio per questo, più subdola ed iniqua. L'assassino dopo l'impresa esulta affermando spietatamente "uno di meno", proprio come lo sceriffo de La notte dei morti viventi di George Romero. Un finale che, come un bagliore infinito, è non solo adeguato ma altamente significativo, per la sua bruciante attualità e per la sua logica stringente.

Prima dell'incredibile epilogo il film riserva però altre emozioni, altri momenti da incorniciare: la sequenza, quasi surreale, ambientata nel pazzesco caos del carnevale di New Orleans (come sono lontane, nello spirito e nel decoro, le festose parate donateci da molti capolavori del cinema francese "di papà", quali il René Clair de Il silenzio è d'oro e il Marcel Carné di Amanti perduti...); il folgorante flashforward della morte in un baroccheggiante bordello (in cui Hopper, come per incanto, ribalta il concetto di flashback); o, ancora, il lungo trip onirico in cui l'allucinazione da LSD assume, una volta per tutte, sembianze visuali perfettamente psichedeliche (e la voce fuori campo che recita il Credo cattolico mentre la mdp si alza improvvisamente verso l'alto "colpendo" il bagliore accecante del sole ne suggellano degnamente l'esito).

Easy Rider è in definitiva un film con cui il cinema indipendente ha trovato di colpo la sua essenza più genuina e più significativa. Una sincerità d'intenti forse mai più eguagliata.