Con un ottimo score del 91% registrato dall'accoglienza critica su Rotten Tomatoes, La caduta della casa degli Usher si rivela - e anzi si conferma - una delle più imperdibili serie dell'anno e del momento. Su queste pagine vi abbiamo accompagnato alla scoperta della nuova opera Netflix di Mike Flanagan sia in sede di recensione che di vari approfondimenti (non perdete tutti i riferimenti a Edgar Allan Poe ne La caduta della casa degli Usher), ma di fatto questo macro adattamento dei racconti più famosi del Maestro del Brivido segna anche la fine della lunga collaborazione tra l'autore e il colosso dello streaming, durata sei anni.
A parte il suo debutto in piattaforma con la riuscita trasposizione de Il Gioco di Gerald di Stephen King, tutti i restanti lavori di Flanagan sono stati di natura seriale e completamente immersi nella fattispecie orrorifica, tra thriller psicologico e haunted mansion, sempre e solo di genere. Interessante come abbia inoltre cominciato il suo percorso adattando il Re del Terrore del nuovo millennio per poi concluderlo tornando al principio e guardando a Poe, uno dei più grandi maestri del brivido. In sei anni, cinque sono stati gli show curati da Flanagan, tutti così noti e apprezzati da essere divenuti sinonimo di qualità, spavento e inquietudine streaming. Ma quale sarà il migliore fra tutti? Oggi proviamo a stilare una classifica dell'intera produzione seriale Netflix di Mike Flanagan, rigorosamente dalla migliore alla peggiore.
1. Midnight Mass
Una cosa su tutte distingue per valore artistico e concettuale la magnifica Midnight Mass (qui la nostra recensione) dalle altre opere Netflix di Mike Flanagan: l'intero show è completamente originale. Da The Haunting Of agli Usher, l'autore ha infatti sempre attinto da scritti altrui con evidenti riferimenti stilistici e d'atmosfera, certo rendendo ogni lavoro unico e personale, effettivamente riconducibile alle sensibilità del regista, ma con Midnight Mass è andato oltre, creando qualcosa d'identitario e autoriale secondo sue dirette rispondenze creative, dal nulla. Ed è onestamente impressionante la mole di qualità riversata nel progetto, dalla struttura alla scrittura, dalla regia alle interpretazioni, dalle digressioni filosofico-religiose fino ad arrivare all'elemento che sovrasta ogni cosa e perfeziona la fatica di Flanagan: la decostruzione - e distruzione - del Cristianesimo a partire dalle sue fondamenta.
L'operazione dell'autore è a dir poco folgorante: ribaltare il verbo della Bibbia e dei vangeli per sottolinearne la fallacia mai divina ma solo umana aperta a vizi, contraddizioni e manipolazioni in senso estremo, accostando il credo al vampirismo, a una malattia, una maledizione. Concettualizza la sua visione attraverso Marx e Nietzsche, guarda ovviamente al Libro Sacro, ancora una volta a King ma anche a Murnau e Stoker, e confeziona con Midnight Mass il suo immenso acme autoriale ancora adesso inarrivabile.
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2. The Haunting of Hill House
Il gioco di Gerald ha spalanco le porte del colosso dello streaming a Mike Flanagan, dando modo all'autore di rivelare tutto il suo talento di genere e la sua affezione all'orrore kingiano. Hill House è stata però la sua vera e grande attestazione, la conferma di un talento narrativo con pochi uguali, oggi, nell'horror contemporaneo. Adattando infatti l'opera gotica di Shirley Jackson, l'autore ha riversato nel progetto tutta una serie di signature stilistico-psicologiche che sono divenute presto marchio di fabbrica dei titoli da lui firmati, sviluppando un prodotto di genere non solo forte per le sue atmosfere, gli elaborati ed eleganti jump scare, i misteri e le citazioni, ma anche e soprattutto per la sua caratura drammaturgica. Hill House è prima di tutto un racconto famigliare di dolore e fantasmi, segreti inconfessati e inquietudine.
Rispetta pedissequamente la natura gotico-fiabesca dello scritto originale vestendola però di modernità e ambizione, guardando in qualche modo già ad Edgar Allan Poe e senza mai rinunciare al suo adorato King, impreziosendo la serie con un'ossatura elaborata in piani temporali sovrapposti abitati da un cast corale divenuto poi vero e proprio feticcio di Flanagan, amato e riutilizzato ovunque, specie la musa Carla Cugino. Hill House è anche la serie dove il regista ha osato di più in termini di virtuosismo tecnico ed estetico, e a testimoniare la cosa resta il sofisticato sesto episodio, Due temporali, girato interamente in due piani sequenza misto nativo-digitali alternati fra loro, tra presente e passato, in una delle notti burrascose più importanti nell'economia della serie. Non avesse mai sviluppato Midnight Mass, senza ombra di dubbio Hill House sarebbe il vero e grande capolavoro di Mike Flanagan.
3. La caduta della casa degli Usher
Giunto alle sue battute collaborative finali con Netflix, con La caduta della casa degli Usher Mike Flanagan confeziona un'opera di caratura concettuale davvero poderosa, rispettando tutti i cardini della sua grammatica stilistico-autoriale, confermando la sua predisposizione per il genere ma anche l'innata capacità di riflettere su tematiche filosofiche, sociali, economiche, morali o religiose attraverso lo stesso, mantenendo comunque intatte le atmosfere da brivido che contraddistinguono da un decennio la sua filmografia. La caduta della casa degli Usher è inoltre molto più di ciò che appare, composta da molti elementi contingenti che insieme vanno a completare e perfezionare un progetto che esula dalla sola trasposizione degli scritti di Edgar Allan Poe per soffermarsi sulla distruzione e destrutturazione del capitalismo americano.
Per farlo, parafrasa, cita e recupera tanto dalla cultura popolare e dai vari media che la compongono, vuoi da Succession o dalla crisi degli oppioidi negli Stati Uniti d'America, dalla biografia dello stesso Poe e dal mistero che circonda la sua morte, dalla dicotomia maestro dell'orrore/poeta romantico che da sempre lo circonda. Un'opera strutturalmente raffinata e complessa che racchiude al suo interno molteplici spunti di riflessione e abilità narrative davvero sorprendenti.
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4. The Haunting of Bly Manor
Il tentativo Netflix nel caso di Bly Manor era quello di bissare l'incredibile successo di Hill House costruendo attorno al marchio "The Haunting of..." un vero e proprio franchise. Di fatto il castello è crollato davanti alla qualità - comunque discreta - del progetto rispetto alla trasposizione (sempre libera e revisionata) del romanzo gotico della Jackson. In contesto, il tessuto narrativo della seconda stagione della serie antologica è liberamente ispirato al romanzo Il giro di vite di Henry James, scrittore americano principalmente interessato alle tematiche della coscienza e della moralità che infatti emergono con decisione in Bly Manor. L'adattamento del racconto è in parte diretto e in parte ri-arrangiato per le esigenze seriali, ma dopo il primo e intrigante episodio lo show comincia a mostrare il fianco a una certa ridondanza espositiva e di genere, meno inventiva rispetto alla precedente iterazione e comunque afflitta da un costante paragone con la stessa.
Il problema è che Flanagan figura principalmente come produttore e il suo "marchio" è aleatorio, tant'è che né in scrittura né in regia compare la sua firma o la sua mano nei restanti episodio della stagione. The Haunting of Bly Manor si muove con circospezione in questa sorta di limbo artistico tra imitazione e compensazione, risultando sì efficace e pertinente ma mai al livello di Hill House, quasi una copia sbiadita della stessa, con una storia di fantasmi differente che esula dalla tematica prettamente famigliare e fa i conti con educazione, abbandono, identità e - ovviamente - sensibilità gotiche predominanti. Un buon lavoro che di Flanagan, però, contiene appena qualche accenno ed esce continuamente sconfitta da un gravoso accostamento stilistico e formale con la prima stagione.
5. The Midnight Club
Mike Flanagan è affascinato dalla mezzanotte. Per il regista, sceneggiatore e showrunner è l'ora perfetta per parlare di mostri o fantasmi, vuoi in un'isola alle prese con i vampiri, vuoi in un hospice per adolescenti malati terminali. Peccato che, pur rintoccando all'unisono, una delle due mezzanotti dell'autore sia più stonata e fuori tempo dell'altra. Come anche sottolineato nella recensione di The Midnight Club, infatti, il penultimo show di Mike Flanagan rappresenta l'anello narrativo più "debole" della produzione dell'autore, termine che in contesto fa curiosamente il giro e diventa in qualche modo forza, quasi in abbraccio diegetico con i protagonisti che racconta. Non una serie facile e nemmeno felice, a dire il vero. In The Midnight Club ci troviamo in un limbo creativo tra il Decamerone di Boccaccio e Red Band Society: da una parte la necessità di alienazione attraverso le storie, dall'altra il peso della morte che incombe su vite ancora troppo giovani per accettarlo senza angoscia, pacificamente. Però lo fanno, i ragazzi del Brightcliffe, certo non senza conseguenze o a cuor leggero.
Ed è infatti il motivo che li porta a unirsi per raccontare e quindi raccontarsi, in un moto terapeutico-oratorio dove, una storia dopo l'altra, la speranza diventa forte quasi quanto l'accettazione, creando un corto-circuito non scontato tra realtà e finzione. Il limite è quello di essere visto da molti come un serial ricattatorio e costruito ad hoc sulla sofferenza e l'accettazione di essa, pensato talmente a tavolino per far commuovere lo spettatore da risultare per molti forzato, specie per l'argomento che tratta. Il problema si trova a monte, già nei romanzi di Christopher Pike, e a dirla tutta Flanagan è persino riuscito a decostruire la grande metafora della battaglia contro la malattia, come se esistessero solo vinti o vincitori e non persone alle prese con uno dei momenti più difficili della loro vita, solo in cerca di comprensione e serenità. Una serie valida che non ha però saputo brillare; sicuramente non come le altre.