Innumerevoli tentativi di scopiazzatura, e l'impronta - epocale - che avrebbe fatto cambiare direzione alla serialità. Guardando indietro, questi dieci anni che ci separano dall'uscita di True Detective ci fanno tremare le gambe per diversi motivi. Se l'età anagrafica conta (eccome, se conta), è palese quanto l'universo seriale sia profondamente cambiato e, con esso, quanto sia cambiato il sottoinsieme legato ai thriller e ai noir. Potremmo quasi dire che esiste un pre e un post True Detective, fotografato in quel livido e folgorante incipit giocatp sui controsensi. A partire dal titolo: La lunga buia luminosità (era il 12 gennaio del 2014, in Italia sarebbe arrivata terribilmente in ritardo solo ad ottobre). Un pilot scritto da Nic Pizzolatto (all'epoca showrunner d'oro) e diretto da Cary Joji Fukunaga per HBO.
Lì, in quei sessanta minuti, umidi e drammatici, c'era già tutto quello di cui avevamo bisogno, in una partenza strettamente legata alla location (la Louisiana del 1995) e ai personaggi, neri e irrequieti: da una parte Martin "Marty" Hart e dall'altra Rustin "Rust" Cohle. Personaggi fallibili e sporchi, dolenti e mutevoli, investigatori agli opposti che, destrutturando il centro del buddy movie, divennero l'archetipo umano celato nel pessimismo vicino alla poetica di Arhur Schopenhauer e di Friedrich Nietzsche. Nel farlo, però, per diventare poi un'opera pop, accessibile, iconica e fragorosa, doveva avvalersi di una presenza scenica all'altezza del contesto, a cui gli spettatori potessero credere, nonostante tutto. Allora, se True Detective è stato l'apogeo della Golden Age delle serie televisive, il merito non può non andare anche (e forse soprattutto) alle facce di Matthew McConaughey e di Woody Harrelson, senza scordare poi Michelle Monaghan, fondamentale per imprimere alla serie una svolta ancora più letteraria, e decisamente simile ad un grande romanzo americano.
True Detective e la Golden Age della serie tv
Del resto, la concezione iniziale, per True Detective, arrivava dalla letteratura: dopo aver scritto un libro meraviglioso come Galveston (divenuto poi un dimenticabile film), Nic Pizzolatto, scottato dall'esperienza di The Killing, assemblò la storia pensandola proprio come un romanzo. Tuttavia, quelli erano anni di forti cambiamenti, di forti influenze. Il cinema si stava allungando, la televisione (complice l'ambizione sperimentale dei broadcaster) stava vagliando le possibilità di un'imposizione narrativa che potesse entrare in concorrenza con i linguaggio cinematografico. Un anno prima era uscito House of Cards su Netflix, Breaking Bad era al massimo e l'umore del pubblico stava scoprendo un altro lato della televisione. La scintilla e lo zenit di quella Età dell'Oro (pur figlia di Mad Men e de I Soprano), fece quindi cambiare idea a Pizzolatto, tanto che strutturò una sceneggiatura finale di cinquecento pagine, commissionata da HBO.
E l'avevamo detto all'inizio della nostra celebrazione, i dieci anni di True Detective, con il senno di poi, incutono una certa ansia. Rivedendo adesso la serie antologica (vi basterebbe anche solo il primo episodio, lo trovate su Sky insieme alle successive stagioni, compresa True Detective - Night Country in uscita il 14 gennaio) ci rendiamo conto di quanto fosse effettivamente cinematografica, cogliendo in sé il paradigma perfetto della messa in scena seriale, oggi sfilacciata in una sfilza di contenuti più o meno omologati (tranne rare eccezioni, ovvio), che non riescono ad aver più la giusta forza o la giusta longevità qualitativa. Ed è ancora forte la potenza di quel pilot che apriva le porte alla selva oscura in cui saremmo finiti, insieme a Rust e a Marty, tra i sogni e gli incubi di un caso di omicidio lungo vent'anni (quello di Dora Lange), stirato da Pizzolatto in uno scambio che alternava il 2012 al 1995. In mezzo, e senza aver paura di risultare esagerato, la parafrasi moderna di quella che potrebbe essere considerata la Divina Commedia della serialità televisiva.
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... E quindi uscimmo a riveder le stelle!
Perché solo la prima puntata di True Detective vale la maggior parte delle serie contemporanee. Provate a rivederla, provate a ricominciarla: sentirete la puzza di umidità dei campi della Louisiana, e l'odore acre della palude; vi bruceranno gli occhi per il fumo di sigaretta di Rust, fumata con una concentrazione tale che resterete imbambolati, quasi intimoriti. Sobbalzerete durante l'intro, accompagnato dalla dolorante Far From Any Road di The Handsome Family, ritrovandovi al centro di una storia macabra, e marcatamente influenzata (appunto) dall'horror, dal weird, dallo spirituale. Una scrittura che ricorre alla simbologia religiosa, facendo la crasi tra la società statunitense, la cultura, l'ambiente rurale e la stessa religione che muove tanto il killer (figura sfocata, irrisolta) quanto i personaggi contrapposti di Martin e Rust che, a guardar bene, si scambiano il ruolo di Dante e di Virgilio per una discesa nella psiche umana. Una psiche viscosa, spaventosa e inquieta.
Rifacendosi a Il re in giallo di Robert W. Chambers (con il richiamo al regno di Carcosa), e finendo per sfiorare la misantropia illuminista di Schopenhauer, Pizzolatto e Fukunaga, con la giusta struttura, mettono in piede una nuova Divina Commedia, capace di riflettere il percorso stesso di Dante, dall'Inferno al Paradiso. Il tutto, dietro il pretesto dell'indagine legato ad un brutale omicidio che, in qualche modo, riassume la violenza maschile contro la donna (Dorotea Lange è una specie di McGuffin). Una violenza quasi sintomatica, e caricata da un'indole appunto religiosa, avvelenando la bellezza stessa, generando l'orrore massimo. Ma se di viaggio si tratta, Pizzolatto come Dante Alighieri, sfocando il noir con l'esoterismo, mette in scena l'archetipo biblico del Bene contro il Male, parafrasando - appunto - Dante e Virgilio usciti a 'riveder le stelle'. Come loro, Cohle e Hart finiscono a rimirare il cielo, dissipando, ad un attimo dalla fine, il loro (e il nostro) pessimismo: "Una volta c'era solo il buio. Secondo me, la luce sta vincendo".