Recensione King Kong (2005)

Un'opera sicuramente valida, in grado di stupire ed emozionare, che raramente annoia nel vero senso del termine, ma che è purtroppo infarcita di tanti piccoli difetti, per quanto tutti figli dell'amore del regista per il suo soggetto.

Tra bello e bestiale

È noto che il motivo che ha spinto Peter Jackson a realizzare King Kong è il suo amore incondizionato per il capolavoro firmato nel 1933 da Merian C. Cooper e Ernest B. Schoedsack; più volte il regista neozelandese ha dichiarato che è stata proprio la visione di quel film a dargli il desiderio - diventato realtà - di fare cinema in prima persona. E come spesso avviene in questi casi, la passione per un progetto tanto sentito e tanto a lungo cullato da un lato è un valore aggiunto all'opera, dall'altro ne è elemento penalizzante.
Reduce dalla epocale fatica della trilogia de Il Signore degli Anelli, Jackson ha subito sfruttato la possibilità di realizzare il film che sognava da anni, film che nelle sue oltre tre ore di durata racchiude molti dei topos narrativi e visivi del regista; i risultati sono purtroppo ambivalenti, non necessariamente per via della durata pur estremamente dilatata rispetto al King Kong originale, che esauriva la sua narrazione (essenziale ma ricchissima di significati e sottotesti, come raccontato in un'altra sezione di questo sito) in soli 100 minuti. Per quanto opinabile possa essere la scelta di Jackson di dilatare tanto a lungo la storia del film, va riconosciuto che i motivi del regista sono chiari. Nella prima parte (introduzione newyorchese e viaggio alla volta di Skull Island) la volontà del regista era chiaramente quella di caratterizzare approfonditamente contesto storico e personaggi. Nella seconda (l'avventura sull'isola e la cattura di Kong) si voleva esaltare la spettacolarità del film. Nella terza ed ultima (il ritorno a NY, la liberazione di Kong ed il suo abbattimento, la più breve nel complesso) si portano al parossismo i conflitti e la loro (impossibile) risoluzione.

Come che sia, nell'analisi di un film come questo, non è la durata in sé a rappresentare un pregio o un difetto. Quel che conta è che da un punto di vista squisitamente cinematografico, spettacolare e ludico, il King Kong di Jackson sembra rispecchiare la dualità che racconta, quella della contrapposizione tra la Bella e la Bestia, con tutto quello che essa contiene e rappresenta. Da un lato il film è quindi razionale, elaborato, (fin troppo) tecnologicamente avanzato. Dall'altro è viscerale, emotivo, cinematograficamente ancestrale. A livello più superficiale e immediato, è bello e bestiale al tempo stesso, sia preso come prodotto cinematografico a sé stante, sia considerandolo in relazione con l'originale del '33.

Traspare con grande evidenza la volontà del regista di realizzare un film che potesse stupire e sbalordire dal punto di vista spettacolare: una volontà che sembra essersi trasformata in un'ansia, specie nella sezione del film ambientata a Skull Island, dove gli avvenimenti si succedono incessantemente, senza dare tregua allo spettatore, senza fine apparente. A questa sovrabbondanza visiva e di eventi - sicuramente quasi sempre efficace a livello d'impatto - manca troppo spesso un giusto ritmo narrativo e soprattutto ed il senso del pathos e dell'epica. Ma quando questi elementi tornano a contare, ecco che il film raggiunge le sue vette più altre, come nell'ottima parte conclusiva del film, con il nuovo, romantico incontro tra Kong e Ann e con un finale sulla vetta dell'Empire State Building lancinante per la carica di passione e di empatia che l'agonia della Bestia riesce a trasmettere allo spettatore.

Se quindi questo King Kong è un film riuscito a fasi alterne dal punto di vista spettacolare, il discorso relativo ai sottotesti del film e alla loro vicinanza/distanza con il film di Cooper e Schoedsack è decisamente più complesso e sfaccettato. Da un lato, Jackson ha ripreso principalmente l'aspetto della storia di King Kong che riflette sul cinema, sullo spettacolo e sui suoi limiti e modalità. Analizziamo nel dettaglio: di Carl Denham viene amplificata la sgradevolezza, ma anche il suo ruolo di regista/avventuriero, in conflitto con l'Industria Culturale intesa come establishment, la sua ossessione per la cattura dell'immagine e la sua riproposizione a dispetto della vita e della morte di chi lo accompagna; di Ann viene sottolineata la natura di attrice (non più aspirante come nell'originale ma frustrata) e di come questa natura possa essere pericolosamente vicina ad una sorta di prostituzione della propria immagine e dei propri valori.
Dall'altro, il regista neozelandese ha raccontato in maniera decisamente più diretta ed esplicita la fascinazione della Bella per la Bestia, arrivando a raccontare di un rapporto nel quale non è più la paura a farla da padrona ma un'attrazione mai sensuale ma morale ed empatica. Il problema è che nel fare tutto questo, Jackson - come già accaduto per quanto riguarda l'aspetto spettacolare già raccontato - spinge a fondo corsa sul pedale dell'eccesso e dell'esplicitazione, col risultato di svilire a volte temi che erano stati raccontati in maniera ben più asciutta ma profonda nel film originale.

Centrale è quella che a prima vista appare come una perdita di ambiguità nel rapporto impossibile tra la Bella e la Bestia. Una bella che perde forse troppo presto le sue ritrosie nei confronti della Bestia, quando si accorge, in una scena nodale del film, che basta presentargli il suo repertorio di vaudeville per ammansirla e sedurla. È carico di significati il fatto che non sia tanto la bellezza di Ann a sedurre Kong, quanto la sua arte, la sua recitazione, il suo fare spettacolo. Ann l'attrice mette in scena se stessa, si prostituisce artisticamente per placare la bestialità di Kong. Lo Spettacolo, che da un lato - quello incarnato dalla rabbiosa utopia documentaristica e commerciale di Carl Denham - fallisce miseramente nell'imbrigliare la Bestia, dall'altro la ipnotizza e la addomestica quando si presenta nella sua forma più diretta, più sincera, più emozionale. Questa sembrerebbe essere la convinzione di Jackson, che a dispetto della maestosità anche produttiva delle sue opere mira a tornare alla base del racconto spettacolare, alla sua forma più essenziale e per questo efficace. Ma rimane in chi scrive il dubbio che una risoluzione di questo tipo di un conflitto tanto complesso sia eccessivamente semplificatrice.

È comunque la misura a difettare in King Kong, film magniloquente, imponente, spettacolare. Jackson ha realizzato un'opera sicuramente valida, in grado di stupire ed emozionare, che raramente annoia nel vero senso del termine, ma che è purtroppo infarcita di tanti piccoli difetti, per quanto tutti figli dell'amore (eccessivo?) del regista per il film (sia il suo che l'originale) e per la storia che racconta. Pur conservando quelle doti di abile narratore e di meticoloso amministratore di enormi set dimostrate in passato, il regista ha forse commesso l'errore di non compiere un passo indietro verso una maggiore asciuttezza e sobrietà, che avrebbe maggiormente giovato al film rispetto alla (pur piacevole) sovrabbondanza di King Kong. Chissà se il risultato non sarebbe stato diverso se ad intervallare la grandiosità de Il Signore degli Anelli e questo ipertrofico nuovo film Jackson si fosse impegnato nella realizzazione di un film più piccolo, intimo e forse minimalista come si preannuncia essere The Lovely Bones, adattamento dell'omonimo romanzo di Alice Sebold.