C'era stato Ufficiale e Gentiluomo, c'erano stati Commando, Karate Kid, Alba Rossa, la saga di Rocky aveva raggiunto il suo apice, Rambo da reduce ferito e disperato era diventato vendicatore della sconfitta nel Vietnam. Erano gli anni 80, gli anni di Ronald Reagan, della ritrovata grandezza americana contro "L'Impero del Male" con targa sovietica, della ripresa economica dei yuppie. Wall Street di Oliver Stone ancora oggi ci parla dell'illusione del libero mercato come risposta a ogni domanda. Gli anni 80 furono la normale e fisiologica reazione di un paese ad una crisi, che ne aveva minato orgoglio e certezze, seguendo lo stendardo di un Presidente ex attore di mediocre talento, ma grande comunicatore in grado di appellarsi ad alcuni punti cardine della cultura americana. Su tutti l'individualismo. E nessun film è stato così efficace, così esemplificativo e eloquente nel parlarci di quel decennio americano più di Top Gun di Tony Scott. Uscito esattamente 30 anni fa, quel film era e rimane non solo l'opera simbolo dell'era di Reagan, ma anche uno dei film di propaganda più azzeccati di sempre.
Dimenticando la sconfitta in Vietnam
Fin dall'inizio, Top Gun si prefigurò come una sorta di metafora di ciò che era stata l'America in quei dieci anni. Tutto iniziava con il protagonista, Maverick Mitchell (Tom Cruise) e la sua spalla Goose Bradshaw (Anthony Edwards), intenti a salvare la vita del loro collega Cougar Cortell (John Stockwell), dopo un contatto ravvicinato in acque indiane con una coppia di Mig sovietici. Cougar, vinto dal panico e dal terrore di lasciare orfano il figlio, si dimette. Ciò aprirà la strada a Maverick e al suo amico Goose, per la United States Navy Fighter Weapons School, la famosa Top Gun dove vengono formati i migliori piloti da combattimento della Marina Americana. Cougar, debole, pavido, rappresentava quell'America che era scappata dal Vietnam, aveva ceduto alla paura, che aveva pensato più a se stessa che al dovere di salvare il mondo dal male comunista, diventando col tempo un peso per il resto del paese. Lo stesso protagonista, Maverick, era legato a quel conflitto, alla grande sconfitta americana, visto che vi aveva perso il padre, anch'egli pilota, in circostanze mai chiarite. Fin dall'inizio Maverick si pone in perfetta contrapposizione rispetto ai reduci del Vietnam che il cinema autoriale aveva proposto in quegli anni. Non è un ragazzo distrutto e pieno di rimpianti, non è un giovane debole e perso. Maverick sa esattamente cosa vuole, dove vuole arrivare, quale vita vuole avere. Top Gun ci mostrò quell'accademia come una sorta di tempio dentro il quale vivevano giovani guerrieri poser, che non vedevano l'ora di poter schiacciare il nemico, di vendicare l'America in cerca di riscatto dalla tragedia appena archiviata.
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I giovani guerrieri dell'America in cerca di vendetta
"Abbiamo appena dato un calcio alla Sindrome del Vietnam" fu la prima frase che George Bush sr. si sentì di dire ai suoi collaboratori appena fu chiaro che nel Golfo, contro Saddam Hussein, le Forze Americane avevano piegato uno degli eserciti più temuti del pianeta in poco più di 4 giorni. Top Gun precedeva quella guerra di cinque anni. Però era già nell'aria, in quei 110 minuti, come il paese cercasse un nemico contro cui scatenare il proprio arsenale e ritornare a vincere. E quasi tutti i film, i romanzi, tutti i sogni americani, erano indirizzati al colosso sovietico, dove nonostante la guida illuminata di Gorbaciov, lo stato di tensione a causa del conflitto in Afghanistan e dei tre decenni precedenti rimaneva altissimo. Maverick si trova in una realtà popolata da giovani guerrieri dai corpi scolpiti e pompati, turgidi e plastificati, connessi all'estetica da videoclip e ai canoni della bellezza machista che in quegli anni proponeva come idoli Schwarzenegger, Stallone, Dolph Lundgren, i bodybuilders figli della grande moda in auge in quel decennio: la palestra. Il famoso match di pallavolo che lo vedeva contrapposto ai rivali Iceman (Val Kilmer) e Slider (Riss Rossovich) era un omaggio al sogno californiano fatto di spiaggia, corpi abbronzati, addominali scolpiti ma anche alla pallavolo americana, che con Karch Kiraly in quegli anni, trionfava proprio contro i sovietici. Eppure, forse in modo involontario, fu anche una delle migliori esemplificazioni dell'omosessualità latente (e non dichiarata o ammessa) insista in quella dimensione di "stallone macho" americano. Il tutto con Kenny Loggins e Playing With Boys di sottofondo.
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Un Rocky Balboa dei cieli
Maverick fin dall'inizio fu caratterizzato come un ribelle, un brillante ragazzo fuori dagli schemi, narciso, vanitoso. Grazie al sorriso e alla perfetta struttura ossea, il personaggio di Cruise era un discepolo dell'arrivismo, del rompere gli schemi, credeva nell'ottimistica ricetta che porta al successo di cui lo stesso Reagan era simbolo. Ma alla fine tutti, in quella scuola, erano in competizione, non esisteva un vero spirito di Corpo o di squadra, se non di fronte alla tragedia o al nemico, e l'iter narrativo di Top Gun era il trionfo dell'individualismo, del singolo che vinceva di fronte al mondo. Vi è una linea chiara e definita che connette Rocky Balboa a Maverick. Entrambi superano prove durissime, riescono a dimostrare di poter essere chi volevano essere, diventano dal niente dei "campioni". Entrambi poi perdono il miglior amico ma riescono di fronte alla minaccia sovietica a lasciarsi alle spalle i propri incubi e paure, a vincere, a vendicarsi e diventare simboli di gloria e successo. Il nemico? Per Rocky e per Maverick si tratta di qualcosa che non ha emozioni, non ha un vero volto, una sorta di mostro. Certo, il pugile Ivan Drago era un uomo, ma la sua selvaggia freddezza, il suo connettersi a un mondo quasi distopico e la mancanza di eloquenza, non lo rendono dissimile per disumanità dai piloti nascosti dietro schermi neri con cui Maverick si confrontava. Al contrario di Rocky però, in pieno accordo con la sua epoca, Maverick è affascinante, eloquente, ha la faccia tosta del seduttore che tutte le ragazze vorrebbero, armato di sicurezza in sé, di un sorriso da copertina e di una personalità irriverente. Modaiolo, aggressivo e ironico, è il prototipo del vincente per diritto di nascita. Americana si intende...
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Tutti sognavamo di essere Maverick
Dopo l'uscita del film, la marina subì un vero e proprio boom di richieste d'arruolamento. Perché no, del resto? In un paese già pesantemente militarizzato, perché non inseguire il sogno di essere come Maverick, un giovane cavaliere dei cieli, armato di occhiali Ray-Ban, Moto GPZ, giubbetto di pelle irto di stemmi, fisico da modello e soprattutto di ascendente sull'altro sesso. Charlotte Blackwod (Kelly McGillis) in Top Gun era parte di una narrazione composta da rallenty, musica glam rock, gomma da masticare e cieli attraversati da bolidi armati, in cui lei altro non era che il richiamo a un'altra fetta del sogno americano: la vita borghese. Maverick in fin dei conti, per tutto il film è in bilico tra essere il più forte, il migliore, e una solitudine che viene colmata da una donna che è sì brillante, intelligente, ma anche rassicurante, materna in un certo senso, che lo incoraggia a non mollare, a essere ciò che è nato per essere: un Top Gun. Anche in questo, vi è un forte legame con Rocky, con l'Adriana di Talia Shire, da cui però Charlotte di stacca per una carica erotica e sensuale immensamente più potente, per il fatto di essere come era sognata la donna degli anni 80: bianca, bionda, occhi azzurri, elegante e in carriera. Top Gun ebbe successo e fu ricordato non solo per l'incredibile regia di Tony Scott, la colonna sonora da urlo o il montaggio incredibilmente avveniristico. Lo fu perché vi trovammo tutti i totem di ciò che era l'America ai nostri occhi: La Mecca in cui il nostro talento sarebbe stato nobilitato, il paradiso del sesso e del successo, dove non esistevano persone brutte o povere, sconfitta e tristezza. Tutti volevamo essere come Maverick, perché tutti volevamo essere americani. Significava essere forti, audaci, vincenti e ammirati. Ogni problema poteva essere risolto dalla mera forza di volontà. A trent'anni di distanza questo film può rivendicare di essere stato qualcosa di più di un lungo videoclip adrenalinico. Top Gun fu il miglior film di propaganda di sempre. Lo fu perché tutti se ne accorsero, ma decisero volontariamente di far finta di niente. Perché a quel sogno, così come nella canzone di Berlin, non si poteva resistere. Toglieva il fiato.
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