Il sipario si apre; le luci si spengono; la bocca si muove, mentre lo sguardo rimane fisso sullo spettatore; e poi eccola, imponente e magistrale, la battuta che riecheggia nel tempo, piegando i confini spaziali e cronologici: "Tutto il mondo è teatro". Spettatori inconsapevoli di uno spettacolo diretto e scritto da mani sarcastiche e sconosciute, gli uomini e le donne che posano i piedi su questa Terra, sono interpreti di performance in continuo happening. Ma se per Shakespeare la nostra esistenza non è altro che uno spettacolo teatrale, per Lin-Manuel Miranda è un musical. Danzano i suoi personaggi. Affrontano la realtà con il potere del canto affidando a ogni nota il peso emotivo di un sentimento rimasto bloccato tra gola e labbra. In un anno in cui il musical imperversa, reduplicando sullo schermo il tentativo personale e universalmente condiviso di lasciare che il canto ci liberi di angosce e delusioni, Miranda si avvicina a un'opera che più di ogni altra ha unito la vita allo spettacolo. Tick, tick... BOOM! è molto più che un semplice musical. È un atto testamentario di una morte prematura non annunciata, ma che si insinua silente tra ogni atto. Scritto, composto e interpretato inizialmente da Jonathan Larson, autore di quel Rent che rivoluzionerà la concezione di fare musical, il debutto alla regia cinematografica di Miranda si presenta come un omaggio sincero, dinamico e coinvolgente dell'opera di partenza. Tra danze, pianti, abbracci e sorrisi, il film è disponibile su Netflix dal 19 novembre. Scoprite insieme a noi, con la nostra recensione di Tick, tick... BOOM!, perché il musical dell'autore di Hamilton è una carovana lanciata a tutta velocità su cui viaggiare senza cinture di sicurezza.
TICK, TICK... BOOM!: lL'INSESORABILE DANZA DELL'ESSERE
Giunti alle porte dei trent'anni la vita fa paura. Soffiare su trenta candeline vuol dire fare i conti con una linea di un totale che segna gli sforzi compiuti, in contrapposizione alle (poche o tante) soddisfazioni tolte. Per Jonathan Larson arrivare ai trent'anni significa scendere a compromessi con se stesso, con l'autore che vorrebbe essere e che ancora non è. È il 1990, e a New York fa abbastanza freddo, mentre le sale di Broadway sono tanto calde. Ed è su quel palcoscenico che Larson ambisce con quello che reputa essere il suo capolavoro, una commedia musicale futurista che mette a punto da otto anni mentre serve ai tavoli di un diner. Il tempo passa inesorabile, mentre Jonathan si sente lasciato indietro. La sua fidanzata vorrebbe lasciare New York, il suo migliore amico ha abbandonato l'idea di essere attore per lavorare nel campo della pubblicità. Ma Jonathan è un prodigio che attende di essere scoperto e finanziato. Impossibile reprimere il suo dono, bisogna insistere, bisogna continuare a scrivere, creare, ispirarsi a qualcosa che conosce. E così alla vigilia del suo trentesimo compleanno e sullo sfondo di un'epidemia di AIDS, la musica si tramuta in workshop prima, in uno spettacolo teatrale dal successo imperituro poi (Rent continua tutt'oggi a essere riproposto nei teatri di tutto il Mondo). Nel mezzo, un'opera autobiografica che ora rivive, riecheggia, risuona come la prima volta; una bomba che scoppia, elargendo emozioni, sentimenti, schegge e zampilli di vita: tick, tick... BOOM!
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NUOVA VITA PER TICK, TICK... BOOM
Era il 2001 quando David Auburn, autore di Proof, traduce e rimodella Tick, Tick... BOOM! in una confessione in terza persona, ed è così che l'opera è stata tramandata per più di due decadi. Poi arriva Miranda e tutto cambia. Insieme allo sceneggiatore Steve Leverson, il creatore di Hamilton (qui la nostra recensione) scende nel cuore dell'opera, ne ritrova le radici, per riportarla alla luce nella sua versione originale. Una struttura così rinnovata e allo stesso tempo curata filologicamente, che unisce in un unico abbraccio vita e sipario. Il montaggio gioca tutto su questa unione eterna, sopratutto per chi, come Larson, vive di musica e teatro. L'alternanza di quello che è stato il primo tick, tick... BOOM! Sul palcoscenico, con gli eventi che lo hanno formato, costruito, generato, prende questi due spazi temporali per unirli, lasciandoli camminare fianco a fianco e influenzandosi reciprocamente. La vita che imita l'arte, mentre l'arte riflette la vita, come mostra la ripresa da video amatoriale che apre l'opera, ricordandoci non solo la natura (auto)biografica del film, ma anche la capacità dell'arte (estesa in tutte le sue forme) di parlare di noi, tra spettri interiori e canti dei sentimenti.
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NEW YORK: CONCRETE JUNGLE WHERE DREAMS ARE MADE
L'ambizione ha il corpo di una città come New York. Eppure nel mondo di Larson non c'è spazio per i grattacieli, le vie affollate dello shopping, di piazze come Times Square o giardini come quelli di Central Park. Nessun elemento riconoscibile della città che non dorme mai, ma sprazzi di ambienti di vita reale, vissuta, così unici eppure così simili a quelli di mille altre città, fatti di murales e locali affollati di domenica mattina. L'ambiente colto dalla cinepresa di Miranda è un mondo anonimo, ordinario, come all'apparenza pare anonimo e ordinario Larson. Chiuso nella sua bolla di ambiziosa creatività, il ragazzo si muove tra le vie della Grande Mela ignorato, incompreso, non visto. Un'ombra che all'interno nasconde una luce bloccata sul nascere, in costante potenza, pronta a esplodere come una bomba, tra ticchettii costanti e inevitabili implosioni. E allora è proprio in quell'ordinarietà che va ricercata la bellezza, briciola di talento e inusitata meraviglia. Larson lo sa che in lui scorre silente la forza di una mente geniale, il fuoco dell'arte alimentato dallo spettacolo della vita. Una fusione che la stessa cinepresa di Miranda ci ricorda costantemente, tramutando ogni singolo momento di quotidianità in intermezzo musicale. Eppure manca quella dinamicità che brucia e smuove il cielo e le altre stelle nell'universo di Miranda. Manca quel battito di ali e pulsazioni cardiache che hanno abbigliato uno spettacolo teatrale come Hamilton con le vesti di un film, dove i cambi di scena, gli insiemi coreografici vivono su una dinamicità che ricorda un montaggio cinematografico capace di prendere per mano lo spettatore e vivere una e mille vite, esperienze, emozioni, tante quante vivono e respirano sul palco. Attento a costruire il prestigioso riflesso cinematografico dell'opera di Larson, Miranda punta tutto sulla perfezione tecnica, dimenticandosi dell'aspetto più importante di un film come Tick, tick... BOOM: il cuore.
Il regista prende le briglia della regia con sicurezza ed estrema professionalità, immettendo i personaggi al centro dello schermo rendendoli reali e non più ombre in movimento di un passato prestato all'arte. Un'infusione di vita compiuta senza riti cabalistici o magici, ma grazie alla forza dinamica di una camera fluida e un ritmo armonioso di montaggio che resta al passo della macchina da presa, enfatizzando e sottolineando la portata emozionale e semantica di ogni singolo movimento. Eppure il senso generale che traspira è quello di uno stile sterile, soprattutto se messo a confronto con quello del precedente Hamilton; uno stile più adatto a un film-concerto che a una narrazione immersiva. Sebbene incagliate tra le morse di una regia che tanto vorrebbe dire e (s)muovere in una dinamicità non del tutto saturata, le emozioni riescono comunque a trasparire, grazie soprattutto alla composizione visiva di una fotografia cangiante che si adatta cromaticamente a ogni umore vissuto nella cornice di ogni attimo. È una compagnia di ballerini pronti a cambiare abito nel sopraggiungere di ogni atto, quella curata dall'operatrice Alice Brook. Una galleria di quadri di formati e aspect-ratio differenti che si colorano di sfumature e tonalità adesso chiare, calde, adesso fredde e ombrose, rispondendo alla chiamata delle emozioni. Questo studio fa di ogni brano una sorta di videoclip musicale, figlio nato in seno alla generazione MTV e lanciato verso quel collage audiovisivo che tenta di fare di Tick, tick... BOOM la più perfetta trasposizione degli intenti del suo autore originale e del suo degno testimone, Miranda.
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ATTORI, OMBRE, SPECCHI REALI
Sono dei contenitori di ricordi preziosi gli attori che compaiono sullo schermo in Tick, tick... BOOM! Non si limitano a interpretare una parte, ma studiano, assimilano e fanno propria l'esistenza di altri prima di loro. La prendono in prestito con rispetto, ridandola indietro con eleganza, simpatia, e naturalezza. Perno centrale attorno a cui tutto il big bang creativo del film di Miranda scoppia e si genera è Andrew Garfield nei panni di Jonathan. L'attore richiama a sé tutto quel campionario di espressioni che lo hanno accompagnato nella creazioni di decine di altri personaggi, smorfie, sorrisi, labbra socchiuse e pugni stretti di rabbia: ogni gesto e mimica espressiva rasentando il confine della macchietta, riesce comunque a raggirare l'ostacolo dando di nuovo vita a un Larson colpito da un maelstrom emotivo che lo rende reale, tangibile, ma soprattutto credibile. Intorno a lui si erge un corollario di personaggi che, come ombre, anticipano la comunità immaginata per RENT. Bohemian, rapper, tipi archetipi del genere umano, sono un puzzle colorato ed eterogeneo già raccolto prima nella vita di Larson, poi in Tick, tick... BOOM! Sia nella sua versione teatrale, che cinematografica. Miranda chiama a sé degli specchi umani e real* di queste presenze che hanno permesso a Larson di crescere, maturare, esplodere, senza morire mai. La Susan di Alexandra Shipp è un fascio di luce che illumina la vita di Jonathan. Le labbra distese, in un eterno sorriso stampato anche nel dolore, dona un senso di calma, bontà, speranza per un'esistenza che cammina in equilibrio sul burrone della mediocrità. Ma e Robin de Jesús nei panni di Michael (migliore amico di Jonathan) a prendere la scena, ingoiarla e farla sua, sintetizzando nello spazio di un volto tutta la girandola caleidoscopica di emozioni che investono il suo personaggio.
Colti in campi ampi, che prendono e uniscono ogni singolo personaggio, non solo Miranda rimanda al concetto di rappresentazione teatrale, di esistenze colte nello stesso tempo su un unico spazio, ma anche al senso di amicizia, di amore, di quel corollario di emozioni che si insinuano nello stato epidermico più profondo fuoriuscendo come una canzone sullo sfondo di una bomba che ticchetta, mentre le lancette scorrono, nell'eterna attesa di un'esplosione totale, quella di applausi scrosciati al ritmo di "tick, tick... BOOM!".
Conclusioni
Concludiamo la nostra recensione di Tick, tick... BOOM! sottolineando come il film di Lin-Manuel Miranda si dimostri un meraviglioso compendio di arte e vita. Sostenuta da un ottimo Andrew Garfield, il musical rende fede al suo spettacolo di origine, tramutando ogni emozione in un brano che si appiccica alla pelle per non andarsene più.
Perché ci piace
- Le performance degli attori, Garfield compreso.
- La fotografia cangiante.
- Un sapore nostalgico di MTV e anni Novanta.
- I brani.
Cosa non va
- La regia a volte sterile di Miranda, tutta tecnica e poco cuore.