"In passato ho tenuto stretto tanto dolore. Non ero disposto a esplorarlo davanti la telecamera. Ho sempre sentito che fosse qualcosa di intimo che dovevo risolvere da me. Ma quando ho realizzato che il mio lavoro è raccontare storie, allora le cose sono cambiate. Ora posso sentirmi sicuro - e fa ancora paura - nel prendere quel dolore, esplorandolo come fatto per The Smashing Machine". A parlare Dwayne Johnson, durante un ristretto incontro stampa a cui ha partecipato Movieplayer.it.
Un pensiero emblematico, quello di The Rock, che riassume al meglio quanto il concetto di lotta - due corpi che si scontrano sul ring, nella gabbia o su un tappeto - sia efficace nella declinazione narrativa. Del resto, il cinema lo spiega bene: pochi film riescono a raccontare con altrettanta forza la fatica, la caduta e la redenzione come quelli sulla lotta sportiva - che si tratti di boxe, wrestling, arti marziali miste o judo. E sappiamo quanto la lista sia lunga. Da Rocky a Toro Scatenato e The Wrestler, da Warrior a Million Dollar Baby, fino a The Smashing Machine di Benny Safdie, in sala con I Wonder Pictures e Unipol Biografilm Collection in collaborazione con WISE Pictures.
La forza del cinema sportivo
In fondo, la lotta è la metafora perfetta del conflitto interiore dell'uomo: nel cinema sportivo le parole diventano epica e il corpo diventa linguaggio. Ogni colpo incassato racconta qualcosa di più profondo: la paura del fallimento, la ricerca di identità, il bisogno di riscatto. Questo, essenzialmente, avviene in The Smashing Machine, tratto dalla vera storia di Mark Kerr, lottatore di arti marziali miste. La violenza sportiva diventa lo specchio di un'anima fragile, intrappolata tra successo e dipendenza.
"Benny ha stabilito una regola: non sarebbe mai entrato nel ring con una telecamera. Tutto era due o tre file indietro, per rendere il senso viscerale del momento", spiega The Rock, soffermandosi sulla figura di Mark Kerr: "Ad un certo punto è stato il più grande combattente di MMA. Un pilastro di forza, ma allo stesso tempo era vulnerabile, tenero a volte, debole e in lotta con le sue dipendenze e la sua depressione [...]". Mark dice: "Ho realizzato che la mia più grande forza è connettermi con altri esseri umani, facendo sapere loro che si può essere vulnerabili. Se lo sono io, tutti gli altri possono esserlo". Perché poi, pensando allo stesso Rocky, è la fisicità cruda, quasi brutale, che rende il genere irresistibile: la sofferenza mostrata sullo schermo è anche la nostra, sublimata in una lotta che è al tempo stesso reale e simbolica.
Da Toro Scatenato a The Smashing Machine: il ring come metafora di vita
Pensando a The Smashing Machine, o a Robert De Niro diretto da Scorsese sul ring di Racing Bull, ogni film di lotta, al di là della disciplina, è un racconto di sopravvivenza. L'arena diventa un microcosmo dove il protagonista affronta non solo un avversario, ma se stesso. È il mito dell'eroe - da qui l'epica sportiva - declinato in chiave moderna: un viaggio di caduta e rinascita che attraversa sudore, sangue e lacrime. Il ring rappresenta allora il luogo in cui la verità non può essere nascosta. Lì non contano più le maschere sociali, ma la capacità di resistere e rialzarsi. Lo spiega Dwayne Johnson: "Abbiamo realizzato un film sul cuore di un combattente. Dietro lo sfarzo, i grandi incassi, i ring, i lottatori sono solitari. Non solo danno la loro anima allo sport, ma lasciano tutto sul ring. Compreso il loro cuore".
Colpo su colpo, livido su livido, la lotta al cinema fa genere a sé, e funziona perché collega due pulsioni fondamentali: l'autenticità e la voglia di spettacolo. Da un lato c'è la realtà violenta dello scontro; dall'altro, c'è la costruzione mitologica del campione, l'estetica della vittoria e della sconfitta. Il manuale dello storytelling, l'esaltazione dell'epica americana che, grazie allo sport, ha creato le proprie leggende. Che sia Sylvester Stallone in Rocky o Hilary Swank in Million Dollar Baby, gli attori si muovono su questa linea sottile, cercando il punto d'incontro tra dolore reale e dramma cinematografico. Tiriamo in causa anche Mickey Rourke in The Wrestler: nel film capolavoro di Darren Aronofsky non guardiamo solo i combattimenti sul ring, ma un'esistenza che si consuma.
Oltre la vittoria e la sconfitta: un cinema che torna ai concetti ancestrali
Questione di sacrificio, di scelte, di rinunce. Oltre il concetto di vittoria e sconfitta - e infatti narrativamente parlando sono più efficaci gli sconfitti che i vincenti -, sudore e lotta sul grande schermo (ri)avvicinano un concetto primordiale legato al confronto diretto. Fisico, livido, vero. "Mark ha inseguito la vittoria in Giappone che gli avrebbe garantito 200mila dollari di vincita. Come sappiamo non ha vinto. Ma questo si è rivelato fondamentale per lui, perché ha capito cosa sia veramente importante nella vita". Ecco: in una realtà che punta sempre più al virtuale, allo schema, allo standard, due persone che tornano a confrontarsi attraverso il corpo restituisce qualcosa di arcaico, quasi ancestrale. Oltre il senso stesso dello sport e del cinema: ritrovare un senso, restando in piedi il più possibile.