Recensione La vera leggenda di Tony Vilar (2006)

Accanto allo sguardo su queste Little Italy americane (che si apprestano però ad essere fagocitate da Chinatown) Gagliardi inserisce, con rispettoso umorismo, il tema della labilità del successo.

The rise and fall of Tony Vilar

Qualcosa sembra muoversi ai margini del nostro cinema. Dopo l'interesse ritrovato per i documentari, ormai sfornati con una certa frequenza, spunta fuori, nel confuso guazzabuglio della Festa del cinema di Roma, anche un cosiddetto mockumentary (ovvero un falso documentario) di produzione italiana, un'inchiesta musicale che parte da uno spunto reale e si dipana in un viaggio di finzione che vuol dare risposta ad una domanda dal sapore nostalgico: che fine ha fatto il grande Tony Vilar? Nasce da un pretesto banale, ma spassoso, La vera leggenda di Tony Vilar, primo lungometraggio di Giuseppe Gagliardi, da lui scritto insieme al musicista Peppe Voltarelli, un colorito peregrinare di un uomo (lo stesso Voltarelli) tra Argentina e Stati Uniti alla ricerca dell'idolo perduto, Antonio Ragusa, emigrante calabrese che negli anni '60 ha fatto fortuna in Sudamerica come cantante melodico, raggiungendo la fama con lo pseudonimo di Tony Vilar e rendendo celebri brani come Cuando calienta el sol, Tintarella di luna e Non esiste l'amor. La stella di Tony ha smesso di brillare all'apice del successo, quando, dopo un concerto, un fan gli ha strappato dalla testa il parrucchino che nascondeva un'imbarazzante calvizie. Tony non è mai riuscito a superare la vergogna per la sua stempiatura, un'onta insopportabile per il beniamino di migliaia di ragazzini, e ha deciso così di ritirarsi per sempre dalle scene.

Genere di origine anglosassone che ha saputo raggiungere vette di grande cinema con F come falso di Orson Welles, This is Spinal Tap di Rob Reiner e Zelig di Woody Allen, il mockumentary lavora sul labile confine che c'è tra realtà e finzione, presenta come d'archivio materiale girato appositamente e scombina l'idea di verità propria del documentario, manipolandola con ironia ed intelligenza. Gagliardi utilizza questo bizzarro genere e parte dalla storia dell'ascesa e della caduta dell'eroe Tony per riflettere, senza prendersi troppo sul serio, sulla vita di oggi degli emigranti italiani in America (un secolo dopo il loro sbarco nel Nuovomondo), giocando con i luoghi comuni e rappresentando i nostri connazionali d'oltreoceano come malinconici abitanti di un'Argentina che fatica ad uscire dalla crisi in cui era sprofondata pochi anni fa, e branchi di Tony Manero votati alla bella vita nel Bronx di New York, con petto in fuori, camicie dai colori sgargianti, gioielli a go-go e la convinzione che la città in cui vivono è stata fatta dagli italiani. Accanto allo sguardo su queste Little Italy americane (che si apprestano però ad essere fagocitate da Chinatown) Gagliardi inserisce, con rispettoso umorismo, il tema della labilità del successo, di come un piccolo, insignificante evento (come la caduta dei capelli) possa determinare il destino di una persona e la fine di una brillante carriera.

La vera leggenda di Tony Vilar ha quel fascino tipico dei vecchi dischi in vinile, che con il loro fruscio sanno creare l'atmosfera di un'epoca lontana, mescola e confonde in un divertissement on the road tutta una serie di colori, musiche, lingue, volti, ricordi, che ci offrono un quadretto, forse un po' troppo folcloristico, ma interessante, della nostra vita al di là dell'oceano. Gagliardo confeziona il suo primo lungometraggio nel migliore dei modi, riservando grande cura all'aspetto tecnico e dimostrando un gusto finissimo nell'angolazione della camera e nelle scelte di regia che privilegiano il campo medio e lasciano allo spettatore la possibilità di cogliere le sfumature dei luoghi e delle vite portate sullo schermo. Caratterizzato da una fotografia dai colori saturi che sa catturare le pulsioni di questi territori in fermento, il film di Gagliardi si lascia guardare con piacere nella prima parte, anche grazie ad una colonna sonora che ha i ritmi trascinanti delle canzonette degli anni '60, ma troppo presto sopraggiunge la noia, le gag vengono ripetute, gli stessi difetti sottolineati più volte, lunghe sequenze sono fatte di un imperdonabile nulla che in un paio di occasioni si cerca di riempire con veri e propri videoclip, di Voltarelli (leader storico della etno-rock band cosentina Il parto delle nuvole pesanti e prossimo al debutto solista) e della guest star Roy Paci. Resta la voglia di sperimentare, di giocare con il linguaggio cinematografico, e quando si parla di cinema italiano non si può che esserne contenti.