E quindi? Quindi, alla fine, c'è stato un taglio generale (non si sa quanto voluto) e la prospettiva si è ribaltata. Totalmente, o quasi. Una prospettiva doppia, tanto narrativa quanto contestuale in relazione ai feedback ricevuti. Il pubblico in generale, e parte della critica, ha mal recepito The Idol, credendo che la serie potesse mantenere alte quelle iniziali promesse: creare scandalo, scioccare, cavalcare gli anfratti pruriginosi. Perché oggi bisogna alzare la voce, o si viene ignoranti. Tempi scuri, tempi violenti, tempi di ideali andati in frantumi. Che piaccia o no, The Idol è la diretta conseguenza di una certa deriva umana. Lungi da noi fare la morale, anzi, ma è innegabile che lo script sia figlio (il)legittimo di un'epoca asciugata dal proprio futuro. Ora, la riflessione è pressoché obbligata: tra attesa e resa c'è di mezzo un oceano, si dovrebbe sapere. Ed era abbastanza prevedibile che tutte le parole spese, ben prima della presentazione a Cannes 2023, siano state (forse?) funzionali per creare la giusta attenzione, spostando l'ago verso quello scandalo che, in fin dei conti, altro non è stato se non materiale comunicativo fine a se stesso.
Dunque, giunti al finale, è arrivato il momento di ragionare su cosa sia stato davvero The Idol, serie tv creata da Sam Levinson, Abel Tesfaye e Reza Fahim, nonché prodotta da HBO e A24, e disponibile in esclusiva su Sky e in streaming solo su NOW. Anzi, bisogna ragionare su cosa è stata, e su cosa non è stata. Senza dubbio, a giudicare dalla complessità, non è quasi mai stata la serie eccessiva che, tra rumors e note produttive, prometteva di essere. Un problema? No, e anzi la delusione in questo senso non è nemmeno considerabile per i suddetti motivi. Come avevamo scritto nella recensione dei primi due episodi, lo scandalo è negli occhi di guarda, nella sua attenzione verso la contestualità del racconto. E lo ripetiamo: come avvenuto in parte in Euphoria, il corpo per Sam Levinson è materiale da poter declinare in diversi modi; il corpo è il pretesto per quella che diventerà, in cinque puntate, la tabellina di un show-biz strategico, calcolatore, estenuante. Addirittura, e per contrappasso, che mette in scena l'aspetto fintamente progressista di Hollywood, risultando invece bloccato in mezzo ad un ingranaggio bigotto, retrograde, sessista.
Lily Rose-Depp: è nata una star
Nel farlo, la sceneggiatura di Sam Levinson racconta di Jocelyn, pop-star mondiale in forte crisi da depressione (sua made è morta da poco, ma il problema potrebbe non essere solo questo) che accetta di affidarsi totalmente al self-help indotto dall'oscuro santone Tedros, a capo di un'ambigua setta in cui coltiva talenti. Qui la prima parentesi della serie: Abel Tesfaye, che ha mollato il nome d'arte The Weeknd, ce la mette tutta e più di tutta per risultare spregevole. A tratti ci riesce, suscitando un tangibile fastidio. A volte finisce per essere ridicolo (volontariamente?), creando così una sconnessione che finirà per esplodere nelle ultime due puntate. I riflessi si capovolgono, e il carnefice diventa vittima della sua algebrica follia. È qui che The Idol si ferma, e si ferma, forse, sul più bello: il gioco entra nel vivo, le carte sono scoperte. Un gioco, se così possiamo definirlo, coinvolgente: se all'inizio Tedros appariva come un moderno Charles Manson, vampiresco, schizzato e ossessivo, alla fine ne resta una sbiadita e scapigliata versione.
Una versione a sua volta soggiogata dalla folgorante evoluzione di Jocelyn (questa sì, svolta interessante), personaggio reso credibile da un'eccezionale Lily Rose-Depp (è nata una star? È nata una star), che fuma come Marlen Dietrich e si muove portando con sé un carico di strabordante carica erotica, costantemente portata in primo piano dalla regia di Levinson. Scelta stilistica talmente palese che ha fatto non poco discutere. Il punto è: parlarne fino alla nausea aumenta solo e soltanto la pulsione voyeuristica, e non di certo l'interesse narrativo scevro da ogni solleticante sfumatura. Lo ripetiamo: oggettivamente, lo show di Levinson potrebbe non essere un racconto così memorabile, ma non è di certo un fallimento come è stato scritto e detto. Insomma: tra il bianco e il nero ci sono infinite sfumature, e quelle che riescono ad uscire fuori dalle cinque puntate (non abbiamo ancora capito se sarebbero dovute essere effettivamente sei, oppure è stata ri-montata per una chiusura anticipata) meritano comunque rispetto.
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Trappole, musica, estetica
Tuttavia, in The Idol è il dramma ad imperversare, a dominare. E lo smarrimento di Jocelyn, vediamo nell'ultima puntata, altro non è che il frutto di un preciso calcolo ampiamente pianificato. Riassumendo: ci siamo cascati. In pieno. Abbiamo idealizzato Jocelyn, senza considerare che una moneta ha sempre due facce. Gli ultimi due capitoli, in particolare il finale, che supera l'ora, è la perfetta equazione del concetto. Il tarlo che la serie sia stata anticipatamente chiusa resta - tecnicamente il montaggio, soprattutto nell'episodio tre, ha diverse incertezze, e nell'episodio conclusivo c'è un notevole salto in avanti rispetto al plot-twist della quarta puntata -, ma come detto resta pure l'evoluzione ribaltata della protagonista, perfetta per l'estetica e per la sostanza di un autore come Levinson. Resta poi l'affresco di un'industria che non ha pietà, che non ha freni né regole, che progetta tranelli senza via d'uscita.
Ecco, Tedros e Jocelyn sono due trappole: lui, una vecchia tagliola che ricorre a miseri mezzucci vendicativi; lei invece è la più dolce tra i veleni. Un veleno che agisce piano, che stordisce e inebria prima di sferrare il colpo mortifero. Alla fine del circo, resta anche la musica nella sua essenza e nella sua purezza (come ricorda il personaggio di Chloe, interpretata da Suzanna Son, o la splendido score composto da The Weeknd insieme a Mike Dean), e resta la digressione sulla ricerca del talento, ponendo però diverse delle domande. Apparenza o sostanza ("sapete quanti cantanti avrei voluto sostituirli digitalmente", dice Eli Roth, che interpreta Andrew Finkelstein di Live Nation)? Algoritmo o corde vocali? Quanto la pop-star ha il polso della sua situazione, e quanto invece è strangolata dalle etichette discografiche? Perché c'è sempre un tour che sta per iniziare, c'è sempre un album da finire. L'importante è scegliere chi essere in questa assurda fiaba chiamata successo. Cappuccetto Rosso, il Lupo o il Cacciatore? Con un avvertimento conclusivo che è già scult: mai fidarsi di quelli con il codino...
Conclusioni
The Idol, tra ciò che è stata e ciò che non è stata. Concludendo la recensione del finale della prima (e unica) stagione, torniamo a riflettere sulla bravura di Lily Rose-Depp, sull'estetica (a volte esasperata) di Sam Levinson, e sulla caratura di una produzione forse incompresa o forse fin troppo discussa. La conclusione, infatti, si ferma sul più bello, ribaltando le prospettive iniziali. Potrebbe bastare, ma le premesse dei primi due episodi sembravano puntare a qualcosa di davvero speciale.
Perché ci piace
- Lily Rose-Depp!
- La colonna sonora, e la musica.
- L'analisi spietata dello show-biz.
- Il cambio di prospettiva.
Cosa non va
- Il montaggio sembra suggerire che ci sia stato un taglio anticipato.
- Le polemiche e le attese non hanno aiutato.
- The Weeknd, a volte, non riesce a stare al passo.