Ciò che ha contraddistinto la visione della realtà di David Lynch rispetto a quella di qualsiasi altro regista è la sua natura doppia e profondamente interconnessa. La sua intera filmografia è, di fatto, testimonianza di un processo di analisi costante dei risvolti del dialogo tra due livelli, e simbolo di un cineasta (ma soprattutto di un uomo) in grado di camminare contemporaneamente in entrambe.

The Elephant Man, il suo primo film "commissionato" con il placet di Mel Brooks e in un certo senso meta sequel del suo esordio completamente indipendente, Eraserhead - La mente che cancella, è un invito esplicito allo spettatore a modificare il proprio sguardo su ciò che è considerato mostruoso per accedere al livello nascosto della realtà e infine immergercisi.
Obiettivo che Lynch persegue rielaborando Tod Browning e Frankenstein, grazie alla sua capacità di adoperare l'arte per individuare il perturbante tra le pieghe di quello che è considerato normale e poi traslare in esso ciò che ci rende umani sul serio, cioè le nostre paure, le nostre fragilità, le nostre mancanze e, soprattutto, le nostre diversità. Una volta liberato, il mostro può guardarci negli occhi in modo che in essi possiamo riconoscerci anche noi.
Lo sguardo alla base di The Elephant Man

The Elephant Man è, "nonostante le apparenze", un film biografico, dal momento che racconta la storia di Joseph Merrick, un uomo affetto da neurofibromatosi, famoso nella Londra dell'età vittoriana a causa della sua deformità fisica. Per il cineasta di Missuola un'occasione ghiotta per mettere a fuoco la sua tesi secondo la quale la chiave per raccontare il mondo è la straordinarietà nella normalità, anche se è considerata mostruosa. Escamotage che riproporrà, in un certo senso, anche per Una storia normale.
Lo fa attraverso un film che aveva tutte le caratteristiche per arrivare al grande pubblico, a partire dal budget fino alle star coinvolte, come Anne Bancroft, moglie di Brooks nonché prima promotrice della pellicola e per questo interprete del personaggio con la battuta chiave del film "Signor Merrick, lei non è affatto un uomo elefante, lei è Romeo". Elementi che, insieme ad una storia così incisiva e apparentemente dritta, permettono al titolo di ottenere ben 8 candidature per i Premi Oscar del 1981. Per Lynch una sintesi (superata poi con Twin Peaks) su come riuscire a portare avanti la sua idea ermetica di cinema insieme ad una forma popolare, interna all'industria.

Questa commistione ha permesso a The Elephant Man di partire con dei presupposti eccezionali, indispensabili per poter operare quel ribaltamento dello sguardo così complesso nei confronti del mondo attraverso lo svelamento della bellezza nel mostruoso e, allo stesso tempo, mettere in piedi una pellicola in grado di arrivare a tutti. Questa formula è ciò che dopotutto, ancora oggi, permette al titolo di vivere di luce propria, anche al di fuori del percorso lynchano.
Dalla parte del mostro

L'opera di rovesciamento dei piani di lettura arriva sin dal prologo, dove lo spettatore si unisce al punto di vista del mostruoso protagonista nel ricordo della perdita della mamma, fatalmente legata alle sue origini. Un'assenza che Merrick porterà per sempre con sé. Solo dopo si passa al contesto vittoriano, dove un dottore vedrà qualcosa in un freak che si nasconde agli occhi del mondo perché ingabbiato dalla visione altrui. Un qualcosa a cui inizialmente non sa dare un nome e che pian piano scoprirà che potrebbe essere "figlio".
Lavorando tramite incursioni oniriche e alternando i piani di realtà, il film ci introduce dolcemente verso l'interiorità dell'Uomo Elefante, dando man mano sempre più respiro allo spazio all'inconscio. Nel caso del protagonista anche luogo dell'immaginazione, unica via di conoscenza dell'esterno quando si è ingabbiati dentro se stessi. Il gioco che mette in piedi David Lynch è proprio quello della liberazione del mostro, che avviene attraverso l'incontro con l'altro e la scoperta di sé. La spinta arriva però sempre grazie alla benedizione artistica, espressa nella battuta sopracitata, pronunciata, guarda caso, da un'attrice.

L'ultima apertura, quella risolutiva, di The Elephant Man avviene quindi verso lo spettatore, che, dopo aver potuto adottare il punto di vista mostruoso, ha accesso alla sua bellezza ingenua, alla felicità per la libertà e alla meraviglie di chi può vivere in una realtà nella quale si può riconoscere. Il mostro liberato può restituire lo sguardo a ciò che lo circonda e può comunicarlo a noi, che a nostra volta possiamo vederlo per quello che è: una creatura deforme in un mondo eterogeneo, esattamente come noi e esattamente come noi alla ricerca di un propria postura. La definizione del cinema di Lynch.