È presto per un commento approfondito e diffuso su The Eddy, la nuova serie tv Netflix diretta da Damien Chazelle che arriverà in catalogo solo l'8 Maggio, ma possiamo raccontarvi in questa nostra anteprima delle prime sensazione dopo la visione dei primi due episodi a Berlino 2020. Sensazioni che, ve lo anticipiamo prima di sviluppare i concetti a seguire, sono positive, pur con qualche perplessità dovuta probabilmente alla visione soltanto parziale di questa prima stagione che sarà composta da otto episodi, sviluppati da un totale di quattro registi e scritti da un team di autori guidati dal creator Jack Thorne.
Vita da club
Prima però è necessaria qualche parola di presentazione: The Eddy non è solo il titolo della serie, ma anche un club in quel di Parigi e una canzone. Un club gestito da Elliot, americano che vive nella capitale francese, musicista di grande talento, tormentato dai problemi economico che stanno affogando l'attività del locale che cura insieme al socio Farid, che sembra essere coinvolto in qualche attività illecita. Ma non è la sua unica preoccupazione, perché ci sono anche contrasti interni alla band, problemi di natura sentimentale e, non per ultimo, l'arrivo in città della figlia adolescente Julie, che da New York decide di trasferirsi dal padre con il proprio personale carico di problemi.
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I membri della band
Proprio come una band e come il jazz che detta il ritmo della serie, il cast di The Eddy ci appare come un insieme di strumenti ben assortiti e intonati tra loro: Andre Holland è magnetico nel ruolo di Elliot, mentre sua figlia Julie è interpretata da una star in ascesa come Amandla Stenberg, capaci di creare e rendere palpabili le tensioni del loro rapporto; Joanna Kulig, già apprezzata in Cold War, è invece Maja, la cantante della band che con le sue origini polacche aggiunge ulteriori sfumature e toni al racconto. Protagonisti attorniati da un gruppo di attori che contribuisce a creare lo spirito multietnico della Parigi che racconta e che sono anche musicisti straordinari, in grado di suonare, realmente e dal vivo, la complessa partitura composta per l'occasione da Glen Ballard.
Racconto in musica
È infatti proprio da un'idea del popolare musicista e produttore musicale che nasce lo spunto originale della serie, nonché le tante canzoni scritte appositamente per essere integrate negli script di Jack Thorne e gli altri autori, resi vivi dalle scelte di messa in scena di Damien Chazelle che conferma la sua capacità nel lavorare con la musica e il jazz in particolare: sembra di essere lì, tra il pubblico, mentre la band suona, grazie a uno stile documentaristico, concreto e autentico, con il montaggio stesso e il racconto che si lasciano guidare dal ritmo unico e travolgente della musica. È quello che ci aspettavamo da Chazelle e se è vero che il regista di Whiplash e La La Land ha diretto solo i primi due degli otto episodi, è ugualmente vero che ha dettato il framework stilistico a cui gli altri tre registi, due dei quali donne, si sono affidati.
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L'unica perplessità riguarda la visione limitata del progetto nel suo insieme, dal non avere un'idea precisa di come si sviluppa l'intera stagione in termini di spazio dato ai singoli personaggi e le loro storie personali ai quali i singoli episodi sembrano dedicati (il primo è infatti incentrato su Elliot, mentre il secondo sposta l'attenzione su Julie). Una perplessità che è anche conseguenza del tanto spazio dato alla componente musicale e che siamo sicuri che sarà fugata dalla visione dei restati sei episodi: quello che è il cuore dello show, che funge da preziosa colonna portante del racconto, rischia in prima battuta di fagocitarlo almeno a tratti, facendo sì che i personaggi abbiano bisogno di tempo per emergere da questo mare di note e trovare il loro spazio e la propria voce poco per volta.