Da una parte, una donna nata e cresciuta in una posizione di potere e di privilegio, ma costretta a un'adesione totale al proprio ruolo in ogni fase della sua vita. Dall'altra, invece, una donna che ha visto la propria esistenza mutare improvvisamente per essere ridotta a una condizione di schiavitù, ma disposta a battersi con tutte le forze pur di riconquistare l'agognata libertà. Le due donne in questione, Elisabetta II e June Osborne, sono i personaggi al cuore di The Crown e The Handmaid's Tale: le due serie che, nell'ultimo lustro, hanno incantato la critica, appassionato milioni di spettatori e fatto incetta di trofei. Non è un caso, pertanto, se a settembre ritroveremo proprio questi due titoli in prima fila nella competizione per gli Emmy Award 2021, con la quarta stagione di The Crown a fare da capofila con ventiquattro nomination e la quarta stagione di The Handmaid's Tale pronta a contenderle il trono, forte delle sue ventuno nomination. Cosa ha permesso a due serie tanto diverse di riscuotere consensi così ampi, e cos'hanno in comune un dramma storico sulla famiglia reale inglese e un thriller di fantascienza distopica?
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The Crown: la Gran Bretagna ai tempi di Elisabetta II
The Crown debutta su Netflix nel novembre 2016, raccogliendo da subito un'enorme attenzione da parte del pubblico. Autore di questo ambizioso progetto, che nell'arco di ben sei stagioni si propone di coprire altrettanti decenni della storia britannica del Novecento, è Peter Morgan, da sempre interessato ad analizzare la società e la politica dei nostri tempi: suoi sono i copioni di The Queen di Stephen Frears, di due film TV dedicati alla carriera di Tony Blair (The Deal e I due Presidenti) e delle pièce teatrali Frost/Nixon, portata poi al cinema da Ron Howard, e The Audience, ancora con Elisabetta II come figura dominante. Ed è sempre Elizabeth il personaggio-chiave di The Crown, il punto di vista primario di un affresco familiare che offre anche, inevitabilmente, una cronistoria dei cambiamenti attraversati dal Regno Unito dal secondo dopoguerra fino al nuovo millennio; cambiamenti che, in molti casi, stridono con le tradizioni e l'immobilismo di un'istituzione plurisecolare quale appunto la Monarchia.
L'aspetto cruciale di The Crown è questo: com'è possibile mantenersi all'altezza di un ruolo che, per la sua stessa natura, risulta via via più anacronistico, eppure continua a rivestire un'innegabile importanza per un'intera nazione? Nelle quattro stagioni realizzate fino ad oggi, Peter Morgan ha posto sotto la lente d'ingrandimento il rigore, il senso di responsabilità, ma pure i segreti rimpianti e l'endemica freddezza di una donna nata per incarnare un simbolo. E ci ha raccontato, al contempo, le reazioni e talvolta il malessere delle persone a lei più vicine: il marito Filippo, il figlio Carlo, la sorella Margaret e, nella quarta stagione, Diana Spencer, la "Principessa del popolo", destinata a incrinare i precari equilibri di Buckingham Palace. Perché nell'ottica della serie, Lady Diana è colei che non vuole rinunciare alla propria autodeterminazione e che non accetterà di sacrificare la sua felicità sull'altare delle convenzioni della corte e di un sistema culturale ormai antiquato.
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The Handmaid's Tale: il futuro da incubo secondo Margaret Atwood
Il conflitto fra la libertà individuale e le aspettative della società, la repressione forzata di emozioni e sentimenti, lo scontro con meccanismi di potere spesso spietati e coercitivi sono elementi che hanno contribuito alla crescente popolarità di The Crown, ma che sono alla base anche di The Handmaid's Tale, seppur trattati con un approccio molto diverso. Accolta da un entusiasmo pressoché unanime al suo esordio, nell'aprile 2017, diventando la punta di diamante del servizio di video on demand Hulu (mentre in Italia è distribuita da TIMvision), The Handmaid's Tale è una trasposizione de Il racconto dell'ancella, romanzo di culto del 1985 della scrittrice canadese Margaret Atwood, già portato al cinema nel 1990 da Volker Schlöndorff. A firmarne l'adattamento televisivo è Bruce Miller, che per la prima stagione si è affidato all'opera della Atwood per poi sviluppare in maniera originale la vicenda dal punto in cui si conclude il libro.
La focalizzazione principale della serie, che corrisponde alla voce narrante del romanzo, è quella di June Osborne, una giovane donna ingabbiata nel ruolo di "ancella": oggettificata come puro materiale da riproduzione a uso e consumo delle famiglie dei ceti più alti. Lo scenario di The Handmaid's Tale è infatti un futuro distopico in cui gli Stati Uniti si sono trasformati nella Repubblica di Gilead, un regime teocratico in cui il genere femminile si è visto privare di tutti i diritti fondamentali, soggiogato da una spietata dittatura patriarcale. Contrassegnata da momenti di spiazzante crudezza, The Handmaid's Tale non ha concesso sconti agli spettatori nel mostrare l'orrore vissuto da June e da altri personaggi sulla propria pelle e dentro i propri corpi, e passo dopo passo ci ha descritto i tentativi della protagonista di sfuggire alla sua prigionia: tentativi che, nell'ultima stagione, arriveranno finalmente a un punto di svolta.
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Dalla corte britannica alla Repubblica di Gilead
In The Crown, le tensioni e i contrasti riguardanti Elizabeth e gli altri membri della famiglia reale o del Governo (inclusa, nella quarta stagione, la volitiva Margaret Thatcher di Gillian Anderson) sono quasi sempre interiorizzati e latenti; e perfino quando esplodono lo fanno in maniera sommessa, nella cornice dei formalismi della corte. Ciò nonostante, The Crown è riuscita a coinvolgere il pubblico nelle silenziose inquietudini dei suoi protagonisti; ancor di più in una stagione in cui la Diana di Emma Corrin ha svolto la funzione di "corpo estraneo" schiacciato dentro ingranaggi a cui non è in grado di aderire del tutto. A rafforzare l'appeal di The Crown è inoltre un immaginario collettivo condiviso, per ragioni anagrafiche, dagli spettatori più adulti, ma in molti casi perfettamente comprensibile pure agli spettatori di giovane età. Un immaginario al quale, in The Handmaid's Tale, si sostituisce invece una canonica iconografia sci-fi, già consolidata da innumerevoli libri e film appartenenti allo stesso filone.
La tragica realtà di Gilead, pur essendo il frutto dell'immaginazione della Atwood, ci appare per certi versi sinistramente familiare: non solo per i suoi richiami ad alcuni classici della fantascienza, ma perché lo spettro dei totalitarismi, la minaccia di un ultra-conservatorismo di matrice religiosa e la paura di un mondo devastato dalle guerre e dalla catastrofe ambientale hanno accompagnato, purtroppo, la nostra visione del mondo, a partire dai libri di storia per approdare alle angosce dei notiziari odierni. E anche in The Handmaid's Tale, come per The Crown, la dimensione psicologica è preponderante: la serie di Bruce Miller non preme troppo sui pedali della suspense e dell'azione (e anzi, non è esente da passaggi più prolissi o ripetitivi), ma preferisce approfondire l'universo interiore di June e degli altri comprimari, mantenendo in tal senso un'impostazione simile alla fonte letteraria.
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June ed Elizabeth: imparando a sopravvivere
Ma fra i motivi del successo di questi due titoli, è impossibile non citare il livello vertiginoso delle interpretazioni dei rispettivi cast, destinatari non a caso di una pioggia di riconoscimenti. Fra i dieci Emmy Award ottenuti finora da The Crown si segnalano infatti il premio come miglior attrice a Claire Foy, che per le prime due stagioni ha prestato il volto alla sovrana, e quello come miglior attore supporter a John Lithgow per il suo Winston Churchill; mentre nella terza e quarta stagione, accanto alla maschera di dolente severità indossata dalla Elisabetta II di Olivia Colman, si sono distinti il fragile Principe Carlo di Josh O'Connor, la sofferta vitalità della Lady Diana di Emma Corrin e la Lady di Ferro di una mimetica Gillian Anderson. Sono ben quindici, invece, gli Emmy Award incassati dalle prime tre stagioni di The Handmaid's Tale, inclusi il premio come miglior serie drammatica del 2017 e sei statuette per altrettanti interpreti.
Fra questi spicca l'Emmy come miglior attrice alla protagonista assoluta della serie, una magnifica Elisabeth Moss, che disegna un ritratto intenso e struggente di June e che quest'anno proverà a fare il bis, sfidando nella sua categoria proprio la Colman e la Corrin. Ed è significativo che tanto la June di Elisabeth Moss, quanto le due versioni della sovrana impersonate da Claire Foy ed Olivia Colman siano il prodotto di un lavoro giocato in sottrazione: donne che hanno imparato a celare una parte di se stesse, ad adoperare l'impassibilità e il silenzio come strumento di sopravvivenza, ma pure ad alzare la testa laddove è necessario fronteggiare le difficoltà. Ed è nei loro sguardi, venati di timore ma illuminati da un'incrollabile forza d'animo, che The Handmaid's Tale e The Crown trovano la propria ragion d'essere, usando il passato della Gran Bretagna e il futuro degli Stati Uniti per raccontarci qualcosa anche sul nostro presente.
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