The Australian Dream e la lotta al razzismo: intervista ai produttori John Battsek e Sarah Thomson

Disponibile su Rakuten TV, The Australian Dream, documentario sulle vicende che hanno sconvolto la carriera di Adam Goode: abbiamo intervistato i produttori John Battsek e Sarah Thomson.

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The Australian Dream: una scena del film

Mettiamo che sei il più grande atleta di football australiano. Mettiamo che tutto ciò che tocchi si trasforma in successo. Mettiamo che stai per portare la tua squadra a una nuova, strabiliante vittoria, quando dalla folla senti arrivare, freddo, improvviso come un colpo di pistola, uno di quei insulti che proprio non riesci a ignorare, talmente carico di odio da irrorare i tuoi occhi di sorpresa e incredulità. Ti giri e, attonito, non puoi accettare che quella parola sia stata pensata e tradotta in urlo da una bambina poco più che dodicenne. E così ti ribelli, chiami la sicurezza per allontanare quella piccola tifosa dall'aspetto angelico lontano dallo stadio, elevandoti a simbolo di un razzismo presente, ma tenuto nascosto, tra le calde strade dell'Australia. "Ape", scimmia: sono solo tre lettere, ma tanto bastano per colpire come un treno in corsa anche un campione come Adam Goodes, "colpevole" agli occhi di una folla adombrata di odio ingiustificato, di avere origini aborigene. Una storia personale, la sua, capace di elevarsi a portavoce universale di mille e altre storie rimaste inascoltate, soffocate dall'onda incapace di ritirarsi dell'odio razzista. È la storia di un sogno tramutatosi in incubo quello narrato con eleganza da The Australian Dream, un racconto privo di falsa retorica, portato avanti senza puntare mai il dito, ma lasciando che siano gli eventi a parlare da soli nella speranza di scuotere l'animo degli spettatori mostrando loro che cambiare le cose, oggi, è non solo possibile, ma necessario.

A raccontarci in questa intervista la nascita e l'universo che circonda questo documentario, disponibile su Rakuten TV, sono i produttori Sarah Thomson e John Battsek, premio Oscar quest'ultimo per il commovente documentario Un giorno a settembre.

THE AUSTRALIAN DREAM E LA VOGLIA DI DARE UN CALCIO AL RAZZISMO

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The Australian Dream: una scena del documentario

Devo essere sincera. Non conoscevo la storia di Adam Goodes, e la cosa che più mi ha sorpreso di tutta questa vicenda è che sia accaduta in Australia, un paese che - come sottolineato dal giornalista Stan Grant all'inizio del documentario - tendiamo a immaginarci tollerante, pacifico e multiculturale. Accettare, quindi, che un attacco a sfondo razzista abbia avuto luogo in questo paese è qualcosa di veramente difficile.

Conoscevate la storia di Goodes? Quali sono state le vostre reazioni nell'apprendere tale notizia? Ma soprattutto, siete stati immediatamente spinti dalla voglia di produrre un documentario su questa triste vicenda?

Sarah: Io sono australiana, e pur essendomi trasferita a Londra circa dieci anni fa, continuo a tenermi aggiornata su quello che accade nel mio paese. Sapevo chi Adam fosse, e ho seguito lo svolgersi degli eventi con attenzione. Rimasi senza parole ai tempi scoprendo quello che questo atleta ha dovuto affrontare, tant'è che ho chiesto più volte a John di contattare i protagonisti di questa storia così da portarla sullo schermo.

John: Per quanto mi riguarda, avendo vissuto per un periodo in Australia, ed essendo appassionato di sport, conoscevo sia la AFL (Australian Football League) che Adam Goodes. Da appassionato, e tu da buona italiana mi potrai capire visto che non puoi abitare in Italia senza essere un amante dello sport, sono abituato ahimè a leggere di giocatori vittime di attacchi razzisti. Ma quello che mi ha lasciato senza parole quando Sarah mi ha raccontato nei dettagli cosa è capitato a Goodes, è il livello di razzismo toccato in Australia. Prendere atto dell'onda di odio brutale che ha investito questo atleta mi ha rattristito tantissimo, lasciandomi allibito.

Quello che mi fa davvero arrabbiare è che pur essendo nel 2020, siamo ancora circondati da ondate di razzismo. Allo stesso tempo credo che i documentari, così come i film o le serie TV, vantino una sorta di potere magico, attraverso il quale riescono a parlare alla nostra mente e al nostro cuore. E così a volte troviamo più facile imparare qualcosa da uno schermo, piuttosto che dalle pagine di un qualche libro.

Siete d'accordo? Pensate che partendo da questo documentario, molti spettatori possano cambiare il proprio modo di pensare, arrivando finalmente a comprendere che non è una questione di essere bianchi, neri, o gialli, ma soltanto di essere umani

Sarah: Questa è proprio una bella domanda. Credo che guardando documentari come questo - e a tale conclusione ci sono arrivata confrontandomi con John - per alcuni spettatori è più facile affrontare e guardare la realtà perché parlano di nazioni e mondi a loro distanti. Non sentendosi coinvolti personalmente, senza essere chiamati in causa per qualcosa che non è avvenuto attorno a loro, sono più spronati a cambiare la propria prospettiva di ideale. Ciononostante le reazioni in Australia all'uscita del documentario sono state strabilianti: abbiamo ricevuto un sacco di lettere di supporto e solidarietà per Adam. Questo significa che il pubblico ha reagito bene, il che non può che farci felici e soddisfatti.

John: Molte persone in tutto il mondo hanno visto il documentario. C'è chi è rimasto immutato, chiuso nei suoi pensieri, e chi invece ne è uscito cambiato. Come hai detto giustamente tu, bisogna anche pensare che per leggere un libro ci vogliono a volte anche tre settimane, mentre per guardare un documentario, o un film, bastano 90 minuti (oddio, a volte anche di più) ed è questo secondo me che fa sì che molte persone si lascino coinvolgere totalmente dalla storia. E io ne sono il massimo esempio, visto che sono un terribile lettore, ma un instancabile divoratore di film. Viviamo in un periodo storico in cui un cambiamento è possibile, penso al movimento del Black Lives Matter, e raccontare una storia come quella di Adam Goodes così simile ad altre migliaia di non raccontate, spero che dia una mano nella realizzazione di questo tanto sperato cambiamento.

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RE-IMAPARARE A GUARDARE LA REALTÀ

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The Australian Dream: un'immagine del film

Cosa ho trovato davvero sconcertante è che tutto sia partito da un insulto; un insulto urlato da una ragazzina poco più che dodicenne, non così dissimile da quello che molti ragazzi della sua età lasciano sui social network. Adolescenti e bambini sono lo specchio dell'ambiente in cui crescono, quindi sta a noi adulti insegnar loro come comportarsi, parlare e relazionarsi con le altre persone.

Mi chiedevo pertanto se avevate in programma - o forse è qualcosa che avete già fatto - di proiettare The Australian Dream nelle scuole.

Sarah: Sì, il documentario è stato trasmesso sul canale ABC, che è l'equivalente della BBC inglese, e della RAI italiana, entrando a far parte del programma scolastico australiano.

John: So che sembrerà un cliché, ma penso che la chiave di tutto stia nell'educazione, soprattutto scolastica. E per quanto riguarda l'Australia è la prima cosa da rivedere perché è basata su nozioni alterate, soprattutto nei confronti della comunità aborigena, totalmente ignorata dai libri di storia. Si insegna ai propri studenti che la storia dell'Australia inizia con l'arrivo delle flotte britanniche, quando in realtà il paese era già occupato già da migliaia di anni dagli aborigeni.

Sarah: Esatto. Quando da piccola studiavo sui libri di storia in Australia, i paragrafi erano pieni di nomi inglesi, senza menzionare mai la parte antecedente riguardante la storia della comunità aborigena. Un racconto storico falsato e a cui molti, come si vede all'inizio del documentario con le riprese delle varie proteste durante le celebrazioni della festa nazionale australiana, non va più bene. Molte persone, aborigene e non, si sono stancate di questa situazione, dichiarandosi decise a non voler più festeggiare un giorno come quello. Dopotutto, si tratterebbe di festeggiare l'inizio non solo delle conquiste inglesi, ma soprattutto, del genocidio aborigeno.

Nel 2019 insieme al vostro The Australian Dream, uscì un altro documentario dedicato ad Adam Goodes, dal titolo The Final Quarter. C'è da dire che i due prodotti sono molto diversi. Il vostro gioca sulla potenza empatiche delle interviste, mentre l'altro su filmati d'archivio.

Sapevate che era in produzione un altro documentario dedicato a questa vicenda?

Sarah: The Final Quarter è un documentario prodotto per la televisione. Il nostro puntava decisamente a vette più 'alte'.

John: Diciamo che avendo coinvolto Adam e altri protagonisti di questa vicenda in prima persona, e vantando una troupe composta anche da professionisti di origine aborigena, puntavamo a offrire la versione "ufficiale" della storia.

È stato facile coinvolgere tutte le persone che vediamo comparire sullo schermo, o c'è qualcuno che volevate intervistare, ma la cui partecipazione è finita con un nulla di fatto?

Sarah: Onestamente posso dirti che dopo che Adam Goodes è salito a bordo, coinvolgere tutti gli altri intervistati è stato un gioco da ragazzi. E sono molto felice che persone come Nicky Winmar, Nova Peris e Gilbert McAdam abbiano accettato.

John: La cosa bella di questo progetto è che non c'è stato nessuno che avessimo voluto che non abbia voluto partecipare. Adam è molto amato in patria e il suo nome ci ha permesso di coinvolgere tutti, fatta eccezione per un ex Primo Ministro che non ha accettato di farne parte, ma alla fine non era un personaggio chiave nello sviluppo della storia, quindi la sua assenza non si è rivelata un gran problema.

Sarah: C'era un gruppo di ragazzi bianchi, spinti da ideologie razziste, che non volevamo intervistare, ma soltanto mostrare attraverso commenti o uscite infelici da loro postate, o rilasciate a qualche emittente, che però non ci è stato possibile utilizzare, e questo lo trovo inammissibile, soprattutto perché stiamo parlando di commenti che loro continuano a pubblicare mandando all'aria lo sforzo di tanti per abbattere questo scoglio del razzismo.

IL BISOGNO DI CONOSCERE LA VERITÀ E LA RISCOPERTA DEI DOCUMENTARI

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The Australian Dream: una sequenza del film

Durante il lockdown, molti - specialmente qui in Italia - hanno riscoperto la bellezza dei documentari. Solitamente, infatti, si tende a guardare prima il film basato su certi eventi e poi il relativo documentario (penso a Munich di Steven Spielberg che racconta le stesse vicende del vostro bellissimo One day in September, o Judy con Renée Zellweger che segue la storia di Judy Garland, proprio come fa il documentario Sid & Judy).

Credete che l'approccio al documentario stia cambiando?

John: Credo che le cose siano cambiate e non sia più così, almeno non necessariamente in quest'ordine. Probabilmente i film giocano ancora sulla presenza degli attori e di quella loro aura divistica che attira così tanto gli spettatori. Ma oggigiorno viviamo in un periodo storico in cui la gente è stanca delle bugie, delle fake-news e di tutto ciò che si allontani dalla realtà. Vuole la verità, vuole l'onestà, ed è per questo che ora come non mai si avvicina ai documentari. Parlando di One day in September, il pubblico voleva che sullo schermo comparissero le persone vere, quelle che hanno fatto la storia. Bombardati da fake-news, e da continue falsità, gli spettatori apprezzano quando si racconta loro la verità. Lo esigono. Per questo preferiscono guardare negli occhi chi gli si staglia davanti raccontando la propria storia come fa Adam Goodes nel nostro documentario, senza abbellimenti o rielaborazioni della vicenda. Ci tengo a ribadirlo: negli ultimi tre anni, soprattutto con il governo Trump, questa ricerca della verità si è fatta sempre più forte. Inoltre, trovo che i film siano spesso deludenti in termini di commozione e aspettative, mentre il documentario raccontandoti la verità così come è, dura e cruda, non può che coinvolgerti emotivamente, facendoti piangere tutte le tue lacrime, molto più di un film.

Sarah: Se posso aggiungere, sono del parere che documentari siano diventati molto più cinematografici da un punto di vista visivo negli ultimi tempo. Ormai hanno imparato a superare i confini del genere che li separava da quello cinematografico, risultando ancor più commoventi.

E cosa potete dirci circa i vostri progetti futuri? Farete mai un documentario su come l'industria cinematografica ha affrontato il periodo di lockdown?

John: Sono sicuro che già qualcuno sia al lavoro su qualche documentario legato al lockdown, ma non è il nostro caso. Per quanto riguarda i nostri futuri progetti, presto uscirà un documentario da noi prodotto dedicato al mondo degli atleti paralimpici. Un universo così affascinante, toccante, eppure fin troppo spesso ignorato. Tra i vari protagonisti ci sarà anche la vostra Bebe Vio. Che atleta e persona straordinaria che è. Così coraggiosa. Così forte e determinata.

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The Australian Dream: un momento del film

Disponibile su Rakuten tv, The Australian Dream è una lezione di umanità perduta, sottratta e poi ritrovata. Un colpo alle proprie radici, ricucito anche grazie alla potenza dello schermo, capace di spingere le persone a riversarsi sulle strade per manifestare la propria solidarietà ad Adam Goodes. Che si trovi su un marciapiede, in piedi in uno stadio, o sulla poltrona di casa, The Australian Dream vive della speranza che il proprio pubblico, attraverso la vicenda raccontata, possa compiere quel piccolo quanto decisivo passo verso un netto cambiamento sociale, calciando con la stessa forza con cui Goodes lanciava i propri palloni in aria, il senso di intolleranza e di odio che lo circonda. Perché quello auspicato dalla realizzazione di un progetto come questo non è solo il racconto di una storia, ma la condivisione di un evento che non può e non deve più ripetersi. Un piccolo passo per l'uomo, ma un grande passo per la lotta al razzismo.